Anche il mondo dello sport ha la sua Giornata della Memoria. Sono stati molti gli atleti che hanno conosciuto i lager perché ebrei, antifascisti o altro. Tra le tante storie, ne ho scelta una poco conosciuta e a lieto fine, quella di Ferdinando Valletti, che si salvò grazie a un pallone…
Ai coraggiosi scioperi degli operai milanesi del marzo 1944, i nazifascisti reagirono con l’unica risposta che conoscevano: la violenza. Di conseguenza, furono centinaia i deportati nei campi di concentramento tedeschi. Tra loro, c’era anche un calciatore che solo un anno prima aveva fatto parte della rosa del Milan: Ferdinando Valletti. Veronese di nascita, aveva giocato nella squadra della sua città, l’Hellas, per poi trasferirsi a Milano dopo l’assunzione all’Alfa Romeo. La passione per il calcio, però, non lo aveva lasciato, e parallelamente al lavoro aveva continuato la sua carriera nel Seregno, dove lo notarono gli osservatori del Milan. Così, nelle stagioni 1941-42 e 1942-43 disputò qualche partita insieme a dei veri pezzi di storia milanista come il grande Renato Boffi (per ben tre volte capocannoniere della serie A) e il giovanissimo Andrea Bonomi, per dieci stagioni in rossonero e capitano, nel 1951, dell’unico scudetto del Gre-No-Li tutto unito.
Era un discreto difensore-mediano, il “Nando”. Ma un brutto giorno si ruppe il menisco. Ai tempi, un problema come quello provocava la fine di una carriera. E questo capitò anche a lui, costretto tra l’altro a partire per il servizio militare. Quando tornò, Ferdinando prima si sposò e poi, in fabbrica, contribuì ad organizzare quello scioperi di cui si diceva. Di fronte ai molti che decisero di incrociare le braccia, i nazisti dapprima restarono allibiti. Poi, reagirono infuriati. Tradito da uno dei suoi stessi compagni, la sera del 2 marzo Valletti era in carcere. Due giorni dopo, veniva stipato su un carro bestiame del Binario 21, destinazione Innsbruk. Il 13 marzo arrivò a Mauthausen, e dopo qualche mese fu trasferito a Gusen, dove si ritrovò a scavare gallerie per dodici ore dopo essere salito sulla “scala della morte”: 186 gradini ripidissimi, piccoli e sconnessi, che provocarono la morte di migliaia di persone. Le condizioni di vita erano quelle che possiamo immaginare: poco cibo, tantissima e insopportabile fatica. Ma Valletti resisteva. Aveva ventitre anni, e resisteva. Aiutando anche gli altri, se poteva. Come il celebre pittore Aldo Carpi, che in seguitò lo ricordò con grande affetto nel suo libro “Diario di Gusen”.
Forse, Valletti ce l’avrebbe fatta lo stesso, a tornare casa. O forse no. Ma un giorno accadde qualcosa di decisivo, a riguardo: il kapò della sua baracca chiese se qualcuno sapesse giocare a football. Sì, anche lì, in quel posto maledetto, c’era chi passava il tempo tirando calci ad un pallone. Ed erano le SS, che per sfuggire alla “routine” del lager, organizzavano partite. Per la prossima uno di loro era indisponibile, e così cercavano un sostituto. Per Nando, fu come pescare un jolly: si fece avanti, disse che aveva giocato nel Milan, e una volta messo alla prova superò l’esame, diventando una riserva della squadra delle SS. Grazie a questo, e a qualche parola in tedesco che aveva imparato, venne così trasferito in cucina, dove era tutta un’altra vita, rispetto alla gallerie in cui era abituato a stare. Lì, qualcosa da mangiare la si trovava sempre. Per sé ma anche per gli altri, perché Valletti non dimenticò mai gli amici di baracca con cui aveva condiviso il lavoro, portando loro dei resti di cibo nascosti tra il piede e lo zoccolo.
Quando il campo di Gusen fu liberato dagli americani, Valletti era vivo. E una volta rientrato a Milano, poté finalmente riabbracciare quella figlia che non aveva mai conosciuto e che aveva rappresentato una ragione in più per tenere duro. Riprese a vivere, Nando. Diventò dirigente dell’Alfa Romeo, allenò qualche squadra di provincia, continuò a tifare Milan nonostante la Società, finché fu in vita, non si ricordò mai di lui. Venne anche insignito della qualifica di “Partigiano Combattente” e del Diploma di Medaglia Garibaldina (oltre all’Ambrogino d’Oro consegnatogli dal sindaco Aldo Aniasi), ma come molti altri solo dopo tantissimo tempo decise di raccontare la sua terribile esperienza. Una volta raggiunta la pensione, cominciò a recarsi nelle scuole per sensibilizzare i giovani al dramma che lui e milioni di altre persone avevano vissuto. Ma anche per comunicare loro un messaggio di pace: nonostante tutto, non bisogna odiare nessuno.
Valletti è morto il 23 luglio 2007. Lasciando a ricordarlo i nipoti e la figlia Manuela, che continua il lavoro nelle scuole e sul padre ha anche scritto un libro: “Deportato I 57633. Voglia di non morire”. E poi, tutti noi, che questa storia abbiamo il dovere di tramandare.
Mauro Raimondi