L’esigenza intima che stimolò la riflessione di Hannah Arendt maturò negli stessi ambienti delle grandi personalità del Novecento filosofico e letterario alle quali l’intellettuale ebrea si è andata via via legando. Se da un punto di vista strettamente geografico la vita della filosofa risulta determinata, in particolare, da due ambienti, quello accademico tedesco (Marburgo, Friburgo e soprattutto Heidelberg) e quello della società civile newyorkese, un elenco dei suoi contatti culturali sarebbe quasi impossibile. Basti ricordare che ha avuto frequentazioni intellettuali con Husserl, Benjamin, Koyré, con Hans Jonas che di lei ci ha lasciato un insolito profilo: …è stata una delle donne di maggior spicco del nostro secolo. Penso di concordare con lei se parlo di donne e non di pensatori (una definizione che sta come la parte al tutto) o di “persone” (un modo per sfuggire alla caratterizzazione sessuale). La sua scelta priva di riserve per ciò che il caso o il destino avevano fatto di lei … la piena conferma da parte sua di tutti questi dati relativi alla propria condizione umana, è indissociabile dall’immagine che è visibile dietro il racconto di questa vita così unica. Era infatti intensamente femminile e proprio per questo non era femminista (io non desidero perdere i miei privilegi …); le piaceva ricevere fiori, essere accompagnata, godere delle attenzioni che gli uomini riservano alle signore.
Mary McCarthy sulla The New York Review of Books (1975) l’ha descritta affascinante, piena di seduzione femminile, gli occhi così splendenti e sfavillanti, ma anche profondi, scuri, remoti pozzi di interiorità. E furono certamente questi occhi a fulminare – lei ancora matricola diciottenne! – il trentacinquenne professore filosofo Martin Heidegger, sposato e padre di due figli. Della loro storia d’amore si sono scritti libri e fiumi di articoli, ma in realtà l’intreccio umano e di pensiero tra i due ha conosciuto momenti diversi, come si deduce dal carteggio raccolto in Lettere.1
Né bisogna dimenticare che il primo matrimonio (1929-1937) della Arendt – precedente quello con Heinrich Blucher, sposato nel 1940 – è stato con un altro grande pensatore del Novecento, Günther Stern (meglio noto come Günther Anders), autore de L’uomo antiquato. Il loro legame avrebbe portato a reciproche influenze, particolarmente fertili per la storia del pensiero contemporaneo. Amicizie e amori che hanno avuto un peso non indifferente tanto nella sua formazione quanto nella genesi del suo impegno politico, inteso in senso lato. Anche la sua origine ebraica si ricollega a gran parte delle scelte da lei compiute, compresa quella forzata dell’esilio dopo l’ascesa del nazionalsocialismo, pur senza esaurire in sé la complessa figura di filosofa, politologa e scienziata sociale. Hannah apparteneva a una ricca famiglia della borghesia ebraica di Hannover, dove era nata nel 1906, ma non aveva né ricevuto una educazione religiosa di tipo tradizionale né avuto legami particolari con i sionisti. Prima di trasferirsi a Parigi, nel 1933, iniziò la ricerca universitaria a Heidelberg sotto la guida del maestro Karl Jaspers fino alla pubblicazione de Il concetto di amore in Agostino (1929), seguito da uno studio sulla figura romantica dell’ebrea Rahel Varnhagen.
Dopo varie peripezie che l’hanno vista, tra l’altro, in carcere perché sospetta e pericolosa (sotto la Francia di Vichy), nel 1944 si trasferì a New York, dove visse fino alla morte, avvenuta nel 1975, e dove scrisse le opere filosofiche più significative.
Eppure nel 1964 pronunciò queste parole: Io non faccio parte della cerchia dei filosofi. Il mio mestiere e il mio campo di interessi, per esprimermi in termini generali, è la teoria politica. Non mi sento per nulla un filosofo e nemmeno i filosofi mi hanno mai accolta nella loro cerchia.
In realtà, come non c’è una sola pagina della sua opera che non sia “filosofica” (da Le origini del totalitarismo a La banalità del male, Vita activa. La condizione umana, Sulla rivoluzione, Tra passato e futuro), così non c’è argomento da lei affrontato che non sia “politico” perché tratta di rivoluzione, violenza, potere, autorità e soprattutto quello per cui è più nota, totalitarismo, l’analisi del quale viene affidata, appunto, al volume Le origini del totalitarismo (1951), oggi considerato una vera e propria pietra miliare nella storia del pensiero etico-politico.2
Conferma la sua collocazione culturale filosofico-politica il saggio dal titolo Che cos’è la libertà, nel quale si avverte chiaramente l’influenza del maestro Jaspers.3
Il filosofo dell’esistenza, tuttavia, insisteva sull’antagonismo di ragione e antiragione e sulle situazioni-limite in cui la stessa libertà, a volte, si ritrova in grave pericolo o comunque ridotta ai minimi termini, dando luogo a quella che si potrebbe definire “una filosofia della libertà”. La riflessione della Arendt si caratterizza, invece, come una “filosofia per la libertà” … la libertà che si dà per scontata nell’enunciare qualsiasi teoria politica … è l’esatto contrario della libertà interiore, di quello spazio nel proprio intimo dove gli uomini possono eludere la coercizione esterna sentendosi liberi. Secondo lei, i filosofi non avrebbero capito che l’uomo non potrebbe conoscere la libertà interiore se non avesse prima sperimentato l’essere libero, come realtà concreta della vita del mondo attraverso l’esperienza politica.
Queste affermazioni potrebbero aiutare a comprendere quanto detto dalla Arendt a proposito del suo mestiere. Ma leggendo quelle parole nel contesto in cui sono state pronunciate e valutando nell’insieme tutti i suoi scritti, emerge subito che il suo allontanamento dalla filosofia è un distacco solo dal discorso speculativo, da una “certa” filosofia esclusivamente “accademica” o dalla fuga nella metafisica.
Lo dimostra ampiamente, e con uno stile intenso e coinvolgente, in Le origini del totalitarismo, una disamina molto approfondita dell’età contemporanea e delle condizioni storico/sociali che portarono all’affermarsi delle dittature del XX secolo. Esse sono nate, sostiene l’Autrice, da una sorta di indifferenza generalizzata: indifferenza, essenzialmente per la vita o la morte. Violenza, male, negatività della storia possono essere imputati a questo assurdo sentimento di indifferenza che, appunto, si declina come vera e propria alienazione di se stessi, o come incapacità di soffermarsi a pensare.
La cosa più difficile al mondo è pensare aveva scritto Blaise Pascal, e la mancanza di pensiero sta all’origine di ogni male, completa la Arendt.
La banalità del male4 sembra un lungo commento a questa frase e racchiude in sé tutto il patire della condizione dell’ebreo, vittima del genocidio nazista. Il negativo nasce dalla banalità di certi atteggiamenti e comportamenti, di certe posizioni nei confronti del mondo e dell’umanità. È una cronaca del processo ad Adolf Eichmann, il gerarca delle SS catturato in Argentina dai servizi segreti israeliani. Nel processo, svoltosi a Gerusalemme nel 1961, le confessioni del piccolo gerarca nazista sterminatore di ebrei non si aprivano su abissi demoniaci, ma mostravano pignolerie o addirittura cattiverie tipicamente burocratiche. Basti pensare che al processo, a più riprese, Eichmann sostenne che le sue capacità organizzative, la bravura con cui il suo ufficio sapeva coordinare le evacuazioni e le deportazioni, avevano realmente aiutato le vittime, avevano alleviato loro le sofferenze. Se una cosa si doveva fare, disse, era meglio farla bene e con ordine. La banalità del male sembra così vivere dentro la nostra “normalità” spirituale e politica; è qui che trova la sua incubazione. Il male è banale nel senso che il banale è male.
Hannah Arendt vuole ricordare questo: i nazisti a cui dobbiamo il male radicale di un’intera epoca storica erano anche borghesucci qualunque. Già nel gennaio del 1945, a guerra non ancora conclusa, in un bellissimo articolo sulla rivista “Jewish Frontier” (Organized Guilt and Universal Resonsability) la Arendt sottolineava che l’organizzazione totale di Himmler non conta sui fanatici, né sugli assassini per natura, né sui sadici: essa fa interamente assegnamento sulla normalità dei lavoratori e dei padri di famiglia.
Del “padre di famiglia” è pericoloso il conformismo e il disinteresse per la sfera pubblica, perché la sua solenne determinazione ad assicurare alla moglie e ai figli una vita agiata... può stare alla base dei più orribili misfatti: … un uomo simile era pronto a sacrificare per la pensione, per l’assicurazione sulla vita e per la sicurezza della moglie e dei figli le proprie convinzioni, il proprio onore e la propria dignità umana.
Altro cardine della riflessione arendtiana sta nell’idea, di derivazione aristotelica, dell’uomo quale essere tendenzialmente politico (animale sociale): è proprio questo universale bisogno dell’altro a rendere l’uomo capace di una grande riscossa, di un superamento consapevole del male e della sua banalità. L’uomo è stato capace di dare forma alla polis proprio perché essere plurimo e desideroso di pluralità.
È nella natura della filosofia occuparsi dell’uomo al singolare, mentre la politica non sarebbe neppure concepibile se gli uomini non esistessero al plurale.
La libertà dell’uomo è quindi libertà plurale, è una libertà fondata sul concetto di spazio politico, sulla comunicazione dove le parole non sono usate per velare le intenzioni, ma per rivelare realtà.
Nella Arendt, in fondo, è centrale il nesso tra vocazione alla libertà e la vocazione all’agire in senso politico, tema questo ripreso e ampliato in Vita activa. La condizione umana (1958).5
La politica, si insiste, è essenzialmente pratica della pluralità, ma al tempo stesso può diventare ideologica e scadere a luogo di attuazione del totalitarismo quando si cerca di prevaricare la libertà altrui. La politica, quindi, nasce tra gli uomini, nell’infra e si afferma come relazione.
È questa la concezione postmoderna (?) della politica, ed è quello che oggi da più parti si auspica per l’“Europa plurale” (del futuro), capace di riconoscere l’identità di ognuno e di farla vivere non contro, ma insieme alle identità altrui.
Quando però l’agire politico è senza pensiero diventa un fatto tragico.
Cosa significa pensare è la tematica affrontata nell’ultimo decennio di vita, un tema che riporta la Arendt in contatto con l’insegnamento dei suoi maestri (Heidegger, Jaspers), con le tesi di Agostino, Platone e Aristotele, oltre che con le tesi di alcuni grandi scolastici (da Tommaso a Scoto) e soprattutto con quelle di Kant.
A Kant, infatti, si ispira l’ultima riflessione della Arendt: a Kant e alla sua ripartizione delle funzioni della ragione nel pensare, volere, giudicare. L’opera nella quale la filosofa consegna le sue ultime riflessioni è, in sostanza, il contraltare della Vita activa, è la vita contemplativa o, come dice il titolo, La vita della mente, pubblicata postuma nel 1978.
Ciò che caratterizza le opere dell’intellettuale tedesca, in sostanza, non è tanto l’insieme dei precetti “etico-politici” su ciò che debba essere una società giusta, quanto l’individuazione, amara e radicale, di ciò che sicuramente non lo è stato.
Alle nostre società malate la poetessa della politica ricorda che l’uomo stesso, fin dalla sua venuta al mondo, è un initium (come diceva Agostino: initium ut esset, creatus est homo), anzi il miracolo dell’initium, cioè un essere capace di creare qualcosa di nuovo, di avviare un nuovo processo, qualcosa di originale e, sulla traiettoria della propria intelligenza e del pensiero, agire, partecipare, soffrire, ri-formare la convivenza politica e sociale affrancandola da ogni schiavitù.
Di fronte alle nuove derive di questo terzo Millennio (fanatismo, intolleranza, terrorismo, violenze di ogni tipo, teorie sulla omogeneità etnica degli Stati) o di fronte ad alcune inedite distruzioni di democrazie, sarebbe utile, per tutti, una rilettura delle opere di Hannah Arendt in quanto ciò che scriveva più di mezzo secolo fa suona valido ancor oggi: Se c’è qualcosa che possiamo salvare nella conflagrazione che ci ha investiti, non potrà che trattarsi di quegli elementi essenziali che sono persino più basilari dei fondamenti della legge e della trama della tradizione e della moralità in cui essi sono intessuti. Questi elementi essenziali non ci dicono altro che la libertà è la quinta essenza della condizione umana e che la giustizia è la quintessenza della condizione sociale dell’uomo, o, in altre parole, che la libertà è l’essenza dell’individuo umano e la giustizia l’essenza della convivenza umana. Entrambe potranno sparire dalla faccia della terra solo con l’estinzione fisica della razza umana.
Giuseppina Rando
1 Hannah Arendt - Martin Heidegger, Lettere (1925-1975) ed altre testimonianze, Einaudi, Torino 2007.
2 Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torno 1999.
3 Hannah Arendt, Che cos’è la libertà, Garzanti, Milano 1991.
4 Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. di P. Bernardini, Feltrinelli, Milano 1995.
5 Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2000.
(Il testo qui proposto è al capitolo “Politica” nel volume: Giuseppina Rando, Le belle parole, prefazione di Flavio Ermini, Scrittura Creativa Edizioni, Borgomanero 2013, pp. 216, € 15,00)
Per approfondire, si vedano:
Hannah Arendt, Sulla violenza, Guanda, Milano 2008.
Hannah Arendt, Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, Feltrinelli, Milano 2006.
Hannah Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, Einaudi, Torino 2006.