Che la cultura abbia un valore è incontestabile. Che abbia una ricetta, dubito.
Nelle epoche passate era un lusso riservato alle classi dominanti, oggi è ramificata nelle sue diverse forme in tutte gli strati sociali proprio in virtù della consapevolezza che la cultura sia il miglior mezzo di promozione sociale. Cultura intesa ovviamente nel senso più vasto del termine, che miri alla formazione integrale dell’uomo e del cittadino.
Se si considera poi la vasta produzione scientifica, letteraria e artistica a livello mondiale non si può certo dire che oggi la cultura sia in crisi, anzi appare, come non mai, viva e vegeta.
Come si spiega allora quel certo oscurantismo che si diffonde sempre più, analizzato tra l’altro anche dal filosofo Zygmunt Barman (1925- 2017) nell’idea di modernità o “società liquida”?
Pare che, perduto il concetto di persona, l'identità e la certezza del diritto, le uniche soluzioni per l’individuo, senza punti di riferimento, siano l’apparire a tutti costi e il consumismo.
Che valore ha allora la cultura se è vero che ci stiamo dissolvendo in una società dove tutto è relativo e non esistono verità e certezze valoriali, ma solo opinioni?
Quale cultura potrebbe fare da antidoto a tanto disfattismo e come acquisirla?
Tempo fa, leggendo Carmine o della pittura* di Cesare Brandi (1906-1988), uno dei maggiori critici e storici dell’arte, scrittore e poeta, sono stata particolarmente attratta da una frase inerente alla la cultura sulla quale ho a lungo meditato: Sulla cultura non si dà ricetta, perché la cultura non è erudizione, cultura diviene solo quella , che entrando a far parte della conoscenza, accresce la coscienza.
In verità tutti abbiamo, bene o male, imparato qualcosa, abbiamo fatto studi, letto, ascoltato e tutti abbiamo incontrato eruditi boriosi, spesso incapaci di comunicare il loro “sapere”, ma abbiamo fortunatamente incontrato pure maestri appassionati che ci hanno fatto scoprire gli orizzonti della vera cultura. Essere colti non è sinonimo di essere sapienti.
La vera cultura non si esaurisce in un accumulo di dati, ma chiama in causa la coscienza perché essa si abitui ad esercitare il giudizio, a scendere nelle profondità dell’io, a scavare nei segreti dell’essere e della vita.
Un filosofo greco, vissuto a Roma, Epitteto (50-125 d.C.) nelle sue Dissertazioni affermava che solo l’uomo colto è libero. Ecco perché le dittature fanno di tutto perché il popolo suddito resti nell’ignoranza e contrastano con ogni mezzo la cultura. (g.r.)
* Cfr. Cesare Brandi, Carmine o della pittura, Editori Riuniti, 1992.