L'ipotesi di partenza della storia del film Tre manifesti a Ebbing, Missouri, è molto bella. Si racconta di una donna, piuttosto anziana, abitante in una cittadina del Missouri, alla quale la figlia è stata uccisa da alcuni mesi, che per denunciare l'inefficienza della polizia locale che ancora non è riuscita a individuare i colpevoli, affitta tre enormi cartelloni pubblicitari al lato di una strada periferica, nei quali espone in poche parole il caso e ne chiede conto, in particolare allo sceriffo.
L'iniziativa suscita scandalo: perché la televisione le dà risonanza; perché le istituzioni locali non sopportano di sentirsi sotto accusa; perché nei cartelloni si enuncia senza mezzi termini il crimine di cui la ragazza è stata vittima: “stuprata mentre moriva”. E il puritanesimo locale, di cui si fa portavoce un prete, si sente ferito.
Dico che questa premessa è bella, perché come capita alle invenzioni narrative felici, sintetizza più significati. Esprime una critica, da cittadino americano, nei confronti delle istituzioni, che però non diventa mai rassegnazione, non esaurisce cioè la speranza di vedere un giorno, magari dopo un'aspra lotta, riconosciuti i propri diritti (in questo caso il diritto ad avere giustizia).
E poi esprime il carattere di un personaggio: una donna, abbandonata dal marito, che convive con un figlio che le vuole bene, ma che, bizzarra e dispotica come lei è, mal la sopporta; la quale è dotata di uno spirito combattivo inesausto, al quale è tutt'altro che estranea la violenza, e che sembra provenirle dagli antenati di quel paese – gli Stati Uniti, appunto – che quel paese lo hanno strappato con le unghie e con i denti; e con il sangue.
E poi, i tre cartelloni funzionano come un test, come una sonda, nella mentalità di un ambiente, di cui rivelano la pavidità acquiescente e il perbenismo.
Ciò detto, non sempre il seguito del racconto è, a mio parere, all'altezza di questa premessa.
Si denuncia nel film il razzismo della polizia, il suo uso della tortura, in particolare contro i neri.
Ma una denuncia – come insegna per esempio recentemente il bel film di Katryn Bigelow, Detroit – è efficace quando ci fa conoscere a fondo il male denunciato, oltrepassando i luoghi comuni.
Qui, invece, della polizia si dà spesso un'immagine troppo facilmente caricaturale.
Uno dei poliziotti colpevoli inefficienti e corrotti, è stupido, come sono stupidi i carabinieri delle nostre barzellette; è platealmente fannullone; dipendente com'è dalle opinioni di sua madre, sembra affetto da infantilismo. E poi, con una conversioni psicologica repentina, motivata molto alla buona, dopo essere stata licenziato, si trasforma in un uomo che ha a cuore la giustizia e a cui in fondo ripugna la violenza.
È solo un esempio. Perché il film soffre di una certa sommarietà nel disegno del carattere e dell'evoluzione dei personaggi, anche di quello della protagonista, che più che il complesso personaggio di una storia comunque tragica, si rivela in fondo soltanto un'abile caratterizzazione, una variazione del tipo del “burbero benefico”.
Il meglio del film riguarda forse certe figure e certe scene secondarie. La violenza permea a tal punto il mondo del racconto che risulta credibile che al tavolo di un locale pubblico, di un pub, un uomo racconti a un altro dello stupro e dell'omicidio di una ragazza, che lui forse non ha commesso ma che ha evidentemente sognato di commettere; e che l'altro uomo lo ascolti incantato, perché un tale crimine orribile costituisce manifestamente per lui una tentazione.
Insomma: il film unisce momenti di verità a passaggi più sbrigativi e più convenzionali.
Ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura al festival di Venezia, e ha fatto incetta di premi ai Golden Globe: fra gli altri, quello alla migliore attrice protagonista assegnato a Frances McDorman.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 20 gennaio 2018
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