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Gianfranco Cercone. “Napoli velata” di Ferzan Ozpetek
07 Gennaio 2018
 

Che cos'è un film d'autore? Che cosa lo distingue da un prodotto cinematografico commerciale?

Dovendo rispondere molto in breve a domanda, direi proprio la presenza della personalità di un autore, vale a dire: un punto di vista originale, forse “unico” e inconfondibile, sulle cose del mondo; che non si può ridurre alle idee più convenzionali in base alle quali è costruito abitualmente un prodotto commerciale.

Che Napoli velata, l'ultimo film di Ferzan Ozpetek, sia un film d'autore – anche se ha i requisiti per riscuotere un successo popolare, utilizzando, a suo modo, i generi popolari del thriller o del racconto di fantasmi – lo dimostra già l'idea di Napoli che permea il film, perché Napoli, come suggerisce il titolo, non è soltanto un fondale del racconto, ma ne è la protagonista, allo stesso titolo del personaggio principale, come se la città fosse l'estensione del personaggio, un'immagine della sua interiorità.

Quel personaggio è una donna, in età matura, molto piacente, una professionista affermata (è un medico, specializzato nelle autopsie), affetta da un turbamento profondo, da una specie di malattia dell'anima, che la sua bellezza, la sua piena integrazione sociale, mascherano a un primo sguardo, ma che la storia del film si incarica di svelare, come se, per così dire, si ritrovasse lei stessa – la sua psiche – a essere oggetto di un'autopsia.

Una sera, in un salotto in cui si celebra il rito della “figliata”, vale a dire un'imitazione maschile del parto, incrocia lo sguardo di un uomo, uno sconosciuto, bello, di una bellezza agli occhi della donna “mitica”, come se si trattasse dell'uomo che oscuramente, a lungo, aveva atteso e desiderato; il quale, senza mezzi termini, le chiede, anzi pretende, di passare la notte con lei.

È una notte infuocata, nella quale la donna sembra saziare una fame d'amore profonda; ma al termine della quale l'uomo sparisce e in breve sarà ritrovato cadavere.

Ora: se si tratti di una morte reale o presunta; se un altro uomo, quasi identico a lui, che la donna incontra, sia lui stesso, sia il suo fratello gemello o sia un fantasma; di questo e di altri misteri, sul presente e sul passato, disseminati nel racconto, preferisco tacere, obbedendo per una volta alla convenzione che vuole che in una recensione non si facciano troppi spoiler.

Perché l'essenziale, ciò che conta nel film, non è nei fatti esterni, ma è nella soggettività della donna, nelle sue intime aspirazioni. Lei avrebbe l'opportunità di dimenticare quell'uomo, di unirsi a un altro uomo, tanto meno ambiguo, e che dimostra di volerle bene. Ma a fronte di un senso di deprivazione antico, che risale alla sua storia familiare, alla sua infanzia; a un vuoto che è alle radici della sua personalità, nessuna compensazione reale pare sufficiente. E per questo lei si ritrova prigioniera nel suo immaginario.

Dicevo di Napoli. Ebbene, la stessa ferita antica, lo stesso senso del vuoto, anzi di una voragine secolare, di una caduta in un precipizio senza fondo, si ritrovano nella Napoli del film. Che è dunque drammatica, perfino angosciosa. Ma allo stesso è morbida, materna. Perché i suoi abitanti, dalle anime tutte similmente malate e ferite, si confortano l'un l'altro, si trasmettono calore umano. Anche se centrato su un personaggio, è dunque un film corale, che si avvale di interpretazioni straordinarie. Fra le altre, quelle di alcuni grandi attori del teatro napoletano, come Peppe Barra e Maria Luisa Santella. Nel ruolo della protagonista, Giovanna Mezzogiorno, offre un'interpretazione in apparenza minimale, ma in effetti sempre partecipe, piena di sfumature e di sottigliezze.

Si tratta di uno dei film più belli, forse il più bello, di Ferzan Ozpetek, perché è quello in cui ha attinto più profondamente alla sua intimità.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 6 gennaio 2018
»» QUI la scheda audio)


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