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Francesco Ghilotti: Tellus 34-38. “L’Almanaccone impertinente” 
La recensione di un correttore di bozze
31 Dicembre 2017
 

Tellus 34-38

L’Almanaccone impertinente

Labos, 2017, pp. 220, € 17,50

(in abbonamento a € 15,00,

spese recapito incluse)

 

La casa editrice morbegnese Labos è recentemente uscita con l’ultimo numero della rivista Tellus: dopo L’Almanaccone 2012 e L’Almanaccone 2013, esce L’Almanaccone impertinente, un’opera, come le altre precedenti, importante e significativa.

Dietro il titolo leggero e vagamente naïf riposa un lavoro complesso, stratificato, che sorprende e merita almeno due letture (questo, per lo meno, è valso per me: d’altronde, la mia prima lettura, in fase di prestampa, è stata viziata, e il piacere neutralizzato, dalla prospettiva fredda e analitica che s’addice al correttore di bozze). Val sempre la pena rileggere un buon libro (scoprendo, cosa nota, ad ogni nuova lettura un libro nuovo), e questo non fa eccezione. Più rari, credo, sono però i buoni libri che tollerino e anzi richiedano una seconda lettura ravvicinata, prossima alla prima, che la completi e le dia senso. Non è necessario, si crede, scomodare le dotte osservazioni sulle “seconde letture” di Eco nel suo Lector in fabula: mi si creda, al proposito, sulla parola.

L’almanaccone impertinente è, rispetto alla maggior parte degli altrui Tellus, una raccolta eclettica, proteiforme. Articoli potenti scivolano l’uno sull’altro come onde sul bagnasciuga, e se a volte ci stupisce, disorienta e attrae quella che a prima vista sembra essere una certa mancanza di ordine, di coerenza, quella aleatorietà, imprevedibilità, che costituisce il fascino (arcano) del caso, altre volte ci pare di intravedere, tra le righe o dietro di esse, uno o diversi fili rossi, una struttura solida, un collante che tiene assieme tutta la spericolata costruzione.

Uno di questi fili di senso ha a che fare con la musicalità, ed è qualcosa che si avvicina all’idea di ritmo. Un ritmo – fatto di pieni e di vuoti, di suoni e di silenzi – che cambia, accelera, rallenta, si evolve ma che rimane sempre definito, scandendo la lettura e il flusso dei pensieri come un metronomo difettoso, o un percussionista inesperto (o virtuoso). E il ritmo palesa, illumina, un secondo filo rosso, presente con volti e voci diversi in tutta l’opera: quello del contrasto, del conflitto, della tensione.

Immagino una musica

con ritmi rotondi

inventata

per raccontare

alla luna

un latrato di stelle.

Un’attenzione (e una tensione) musicale emerge fin dalle primissime pagine, nelle parole limate, tornite, spietate di Patrizia Garofalo (In anestesia di cuore, pp. 3-20), che si stagliano come silhouettes in controluce, potenti, nel bianco vuoto della pagina, come «ombre che oscillano e riportano canzoni senza note» (p. 17).

Il gioco sottile e drammatico di luci («che siano luce i versi che t’invio», p. 20) e ombre («quell’ombra che riluce / dall’angusto respirare nella gabbia», p. 9) della poetessa marchigiana, recentemente scomparsa, lascia il posto, bruscamente, ad un ritmo differente, meno sfumato, meno preciso, altrettanto, forse, tagliente.

Si discute di cosa offrire a chi arriva da Roma, non si ascolta la voce sommessa di tre corvi ed un picchio nero che stanno nella stradina che solo la finestra del cesso permette di osservare.

Il bell’articolo di Giuseppe Galimberti, Il volto poetico dell’idea (pp. 21-111), è scandito dall’alternarsi di disegni sapientemente abbozzati a penna o matita, con tratti spesso duri e spigolosi e da annotazioni lucide, come sempre brillanti, intriganti. Veloci schizzi, di linee e di parole, per ricostruire «il pensiero di un’epoca». Appunti sull’architettura, sull’urbanistica, sull’uomo, sulla modernità e sulla mediocrità, caratterizzati dal bianco e nero, contrasto che si fa esistenziale («il simbolo sa costruire bellezza se a lui diamo fiducia, il dogma impone la forma perché teme che l’ignoranza non sappia capire la simbologia»; «i piani regolatori generali sono la farsa della progettazione territoriale, basata sull’avere e mai sulla logica territoriale, essi normano l’inutile…») e lascia poco margine alle sfumature intermedie (e tuttavia, ad una seconda lettura, a colpire sono proprio queste sfumature, che uniscono uomo e animale, arcaico e modernità, il poco e il lusso, il divino e l’umano).

L’articolo di Galimberti, corposo, costituisce in certo senso il fulcro e baricentro del volume, la sua parte centrale, solida come le sue sculture in legno, sapiente, spiazzante.

come se do re mi di molte molte lingue

venne, a multiplo di Sempre, il Tutto fiammante

fiammante!, di gran vento

E ancora la musica ritorna protagonista nel terzo articolo dell’Almanaccone, Concerto per suoni lontani e parole vicine (pp. 113-129): poesie e note di Gian Paolo Guerini e Silvia Comoglio. Poesie brevi e destrutturate, esplose, dal respiro molto differente di quelle di Garofalo, con le quali pure sembrano dialogare, anche attraverso i ponti di alcune parole (correlativi oggettivi?) comuni (terra, radici, acqua…), di alcuni verbi (specchiarsi, morire…).

Con le poesie di Guerini e Comoglio si conclude la prima parte, dal punto di vista strutturale, dell’opera. Il ritmo veloce costituito da versi brevi, spezzati, da brevi annotazioni, dall’alternarsi ordinato e impetuoso di parole e immagini lascia il posto a quello più disteso del racconto, della narrazione. Il percussionista prende fiato, il metronomo rallenta.

Il senso di tensione e di conflitto, sempre presente, si smorza tuttavia affondando nel passato, intrecciandosi nei sentieri della memoria.

Prima ancora di dirvi che sì, che conosco quell’uomo sulla foto, vorrei chiedervi come avete fatto a trovarmi.

La prima narrazione è quella, ancora frammentata, della vita (e della morte) del grande scrittore Roman Kacew, tradotto in italiano, con lo pseudonimo di Romain Gary, dalla Neri Pozza. Si tratta di una raccolta di testimonianze (Andrea Gratton, Le Vite Davanti a Sé, pp. 131-165) rilasciate tra il 1980 e il 1981 – alle soglie dunque del suicidio di Roman – da conoscenti, domestici, direttori editoriali, giornalisti, critici, notai, ricercatori, prostitute.

Da questo puzzle policromo e polifonico emergono lentamente, come in una vecchia polaroid, alcuni tratti della personalità e della fisionomia di un personaggio chiave della cultura, della letteratura e della resistenza dello scorso secolo.

E dopo aver viaggiato alla ricerca di un fantasma e delle sue tracce per la Parigi degli anni ‘80, con ancora negli occhi gli occhi vivi di Roman e della bellissima Jean Seberg, che attraggono, centripeti, l’attenzione in alcune foto in bianco e nero, non possiamo che ritornare con la mente all’inizio dell’opera, alla memoria di un altro fantasma, Patrizia Garofalo, che ci osserva da dietro i suoi versi (giacché nelle foto, gli occhi sono sempre rivolti verso un altrove collocato da qualche parte, in alto). E invece andiamo avanti, spinti dalla corrente.

La ressa dei fedeli creava un movimento ondivago, mentre gli occhi mi si annebbiavano. I canti dei pellegrini e le urla delle donne che chiedevano grazie alla Madonna rimbombavano nella chiesetta tappezzata di ex voto e nella mia testa ovattata.

A chiusura dell’opera la bella narrazione autobiografica di Maria Lanciotti. La scrittrice e giornalista, in A capo scoperto (pp. 167-213), parla con forza e semplicità della sua giovinezza nella Roma scalcinata del secondo dopoguerra. Una Roma che mi ha ricordato a tratti pagine di grande letteratura, e mi ha riportato al paesino sardo di Soreni dell’Accabadora di Murgia, alla Napoli dell’Amica Geniale della Ferrante.

Il filo rosso che guida il flusso dei suoi pensieri e dei suoi ricordi è la tensione tra la religione ottusa, cupa e bigotta che la schiacciava e la opprimeva con tutta l’inerzia del suo peso morto, e la ricerca di un’altra spiritualità, che trova infine, nelle ultime righe che salvificamente chiudono il volume, nel «Mistero che tutti – e tutto – contiene».

 

Francesco Ghilotti


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