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L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri 
Napoli, Genova e Milano a confronto 1610 – 1640
Caravaggio,
Caravaggio, 'Martirio di santOrsola' (Collezione IntesaSanpaolo) 
23 Dicembre 2017
 

Fino all’8 aprile 2018 le Gallerie d’Italia a Milano – Piazza della Scala, sede museale di Intesa Sanpaolo, presentano la mostra “L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri. Napoli, Genova e Milano a confronto (1610 – 1640)”, a cura di Alessandro Moradotti.

La mostra costituisce un eccezionale approfondimento delle vicende artistiche sviluppatesi nella città di Napoli, Genova e Milano a seguito della scomparsa del Merisi, in un periodo storico-artistico diviso tra la rivoluzione devota al naturale di Caravaggio e la nuova età colorata e festosa del Barocco. Il Martirio di Sant’Orsola (1610) di Caravaggio, l’ultimo capolavoro del maestro che morirà poche settimane dopo, sarà quindi il punto di partenza per un confronto con gli artisti del tempo, divisi tra chi ne raccolse l’eredità e chi invece intraprese nuove strade.

Con il patrocinio del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e del Comune di Milano nonché la partnership dei Musei di Strada Nuova di Genova e la collaborazione con l’Università degli Studi di Torino, l’esposizione L’Ultimo Caravaggio illustra in sette sezioni un Seicento in cui gli sviluppi artistici sono esemplificati anche attraverso le collezioni dei due fratelli Doria, Marcantonio e Giovan Carlo, banchieri e mercanti di grande munificenza.

Le scelte di gusto dei due genovesi rispecchiano le aeree di interesse economico in cui rispettivamente si mossero. Da un lato Napoli, ricca di caravaggismo ed echi classicheggianti, piazza preferita di Marcantonio, con opere, fra gli altri, di Battistello Caracciolo e José de Ribera, dall’altro Milano e Genova, dove Giovan Carlo si volgerà verso le pitture “avanguardiste” per l’epoca, comprando opere di Giulio Cesare Procaccini, Pieter Paul Rubens, Bernardo Strozzi, Simon Vouet e molti altri maestri coevi italiani ed europei.

Con “L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri” si percorre un viaggio attraverso la pittura del primo Seicento a Napoli, Genova e Milano, tra fascinazione e resistenza al nuovo e rivoluzionario linguaggio del pittore lombardo. In questo percorso, fatto di contrapposizioni, di contaminazioni e di rispecchiamenti con altri grandi protagonisti di quel periodo, viene affrontato il tema della sfortuna e della fortuna di un artista, partendo dal suo ultimo dipinto, il Martirio di Sant’Orsola. Questo capolavoro di Caravaggio, che fa parte delle raccolte di Intesa Sanpaolo, è messo a confronto con diversi e splendidi dipinti Procaccini, Strozzi, Rubens, Van Dyck ed altri maestri dell’epoca, provenienti da musei nazionali e internazionali.

Il Martirio di Sant’Orsola è un dipinto a olio su tela (143 x 180 cm.) eseguito nel 1610 da Caravaggio e conservato presso Gallerie d’Italia-Palazzo Zevallos Stigliano, sede museale di Intesa Sanpaolo Napoli.

L’opera è di fatto l’ultima pittura del Merisi essendo stata realizzata poco più di un mese prima della sua morte. Commissionato dal principe Marco Antonio Doria (la cui famiglia aveva per protettrice proprio Sant’Orsola), il dipinto fu eseguito dal Caravaggio con molta rapidità, probabilmente perché questi era in procinto di partire per Porto Ercole, ove avrebbe dovuto compiere le formalità per essere graziato dal bando capitale. Ѐ ben noto che durante quel viaggio il pittore trovò la morte. La fretta fu tale che la tela uscì dallo studio del pittore ancora fresca di vernice e, non essendo perfettamente asciutta alla consegna, degli incauti servi la esposero al sole, circostanza che fu all’origine della sua sofferta conservazione.

L’opera fece ritorno a Napoli nella prima metà dell’Ottocento, pervenendo per via ereditaria al ramo dei Doria dei principi d’Angri e successivamente, circa un secolo dopo, ai baroni Romani Avezzano d’Eboli, per essere infine acquistata, come opera di Mattia Preti, dalla Banca Commerciale Italiana nel 1972.

Dopo alterne vicende attributive, la reale paternità dell’opera e la sua fondamentale posizione storica saranno definitivamente chiarite soltanto nel 1980, grazie al ritrovamento, nell’archivio Doria D’Angri, di una lettera scritta a Napoli il 1° maggio 1610 da Lanfranco Massa, cittadino genovese e procuratore nella capitale partenopea della famiglia Doria, e diretta a Genova per Marco Antonio Doria, figlio del Doge Agostino: «Pensavo di mandarle il quadro di Sant’Orsola questa mattina però per assicurarmi di mandarlo ben asciutto, lo posi al sole, che più presto ha fatto revenir la vernice che asciugato per darcela il Caravaggio assai grossa: voglio di nuovo esser da detto Caravaggio per pigliar suo parere come si ha da fare perché non si guasti».

Ai travagli patiti nei secoli dalla tela – guasti, ampliamenti, ridipinture, che ne avevano profondamente alterato la leggibilità e la chiarezza iconografica – ha posto finalmente rimedio l’importante restauro promosso dalla Banca e condotto tra il 2003 e il 2004 presso l’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma, che ha ripristinato l’originaria coerenza dell’immagine, ora più fedele e prossima alle intenzioni dell’autore. Tra le principali novità apportate da questo complesso intervento nella lettura del dipinto occorre segnalare il recupero del braccio e della mano tesa di un personaggio che tenta invano – con forte accentuazione nella carica drammatica della scena – di arrestare la freccia scoccata dal carnefice; inoltre la presenza, nel fondo, di un tendaggio, che suggerisce un’ambientazione dell’accampamento del re unno; infine le sagome di un paio di teste dietro il piano della santa. Come sua consuetudine, il Caravaggio si discosta dall’iconografia tradizionale di Sant’Orsola, generalmente ritratta coi soli simboli del martirio e in compagnia di una o più vergini sue compagne; sceglie invece di raffigurare il momento in cui la santa, avendo rifiutato di concedersi al tiranno Attila, viene da lui trafitta con una freccia, caricando la scena di un tono squisitamente drammatico. Il dipinto è ambientato nella tenda di Attila, appena discernibile grazie al drappeggio sullo sfondo, che funge quasi da quinta teatrale. L’intero ambiente, come consuetudine nei dipinti caravaggeschi, è permeato da un complesso gioco di luci e ombre, che tuttavia in quest’ultimo dipinto dell’artista sembra dar vantaggio più alle seconde che le prime: è uno specchio del travagliato periodo che l’autore stava vivendo nella parte finale della sua vita.

Il primo personaggio a sinistra è lo stesso Attila, raffigurato con abiti seicenteschi; il barbaro ha appena scagliato una freccia e sembra essersi già pentito del suo gesto: sembra quasi allentare la presa dell’arco e il suo volto è contratto in una smorfia di dolore, quasi a dire “che cosa ho fatto?”. A poca distanza da lui c’è Sant’Orsola, trafitta dalla freccia appena visibile sul suo seno: ella sta piegando la testa in quella direzione e con le mani sta spingendo indietro il petto come per meglio vedere lo strumento del suo martirio. Non sembra provare dolore, piuttosto una disinteressata rassegnazione, ma il suo volto e le mani bianchissime rispetto a quelli degli altri personaggi preludono alla sua immediata morte. Infatti tre barbari, anch’essi in abiti moderni, stanno accorrendo a sorreggere Sant’Orsola, ed essi stessi sembrano increduli di fronte al gesto repentino e impulsivo del loro capo. Nelle fattezze di quello di loro che si trova alle immediate spalle della santa, Caravaggio ha raffigurato se stesso con la bocca dischiusa e l’espressione dolorante: egli sembra ricevere la trafittura insieme a lei.

 

Maria Paola Forlani


Foto allegate

Caravaggio,
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