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Giovanni Boldini. La stagione della Falconiera
11 Dicembre 2017
 

Alla mostra di Ferrara dedicata a Boldini nell’estate-autunno del 1963, sono stata, allora giovane studentessa della Scuola d’Arte, una dei cinquantacinquemila visitatori che hanno percorso le sale di Casa Romei, tappezzate per l’occasione di raso turco per ambientare il mondo belle époque che fuoriusciva impetuosamente dalle tele. Sicuramente troppo frivole per le severe strutture tardo medioevali dell’edificio. Boldini, all’epoca, era citato appena dai testi scolastici. L’educato scambio di battute tra l’allora giovane Franco Farina (alla sua prima impresa come curatore di mostre) ed Emilia Cardona Boldini (vedova del maestro ferrarese) riconduceva proprio a questo silenzio imperdonabile. Ma sarà proprio Franco Farina che negli anni ’70, a Palazzo dei Diamanti ricomporrà uno dei musei più suggestivi su Giovanni Boldini, tornato, finalmente, nella sua città natale.

In occasione di Pistoia Capitale Italiana della Cultura, presso il Museo dell’Antico Palazzo dei Vescovi gestito da Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia fino al 6 gennaio 2018 è ancora aperta la mostra Giovanni Boldini. La stagione della Falconiera”. L’esposizione è stata curata da Francesca Dini con la collaborazione di Andrea Baldinotti e Vincenzo Farinella (catalogo Sillabe) e rappresenta una delle esposizioni più importanti dell’anno programmate dal Museo ed una delle più interessanti nel cartellone delle iniziative di Pistoia Capitale. Il titolo della mostra prende ispirazione da un ciclo di pitture murali a tempera che Giovanni Boldini ha eseguito durante il suo periodo toscano, sul finire degli anni sessanta dell’Ottocento, presso la Villa La Falconiera, che apparteneva allora alla mecenate inglese Isabella Falconer.

Questo ciclo di pitture murali di cui per diverse vicissitudini dopo l’esecuzione nel 1868 si perse subito la memoria, rappresenta un unicum in Europa, non solo per quanto riguarda la produzione artistica del grande pittore ferrarese, ma in generale della corrente macchiaiola, alla quale il Boldini aderì, in modo personalissimo, prima del suo trasferimento a Parigi (1871), dove era destinato a diventare il più importante ritrattista internazionale e icona stessa della Bella Époque.

Gli inizi di Giovanni Boldini furono, dunque, legati fra il ’60 ed il ’70 all’opera dei macchiaioli, e fu il più spontaneo, il più furbo, il più guizzante e, talvolta il più ironico pittore italiano dell’Ottocento.

Nato a Ferrara il 31 dicembre del 1842, morto a Parigi il 12 gennaio del 1931, i primissimi studi li fece con il padre Antonio, che in gioventù era stato a Roma allievo di Tommaso Minardi, imparando che a base della pittura deve essere una assoluta padronanza del disegno.

È facile allora immaginare come, trasferitosi a Firenze nel’63 per iscriversi all’accademia ove insegnava Ussi ed il Pollastrini, prestissimo abbandonasse quelle aule frequentando piuttosto alcuni amici pittori sulla via del successo e gli ambienti eleganti della città verso i quali lo sospingeva certo un suo gusto raffinato e godereccio insieme. I suoi primi amici furono il Venea ed il Sorbi, inclini al generismo grazioso; ma a loro si aggiunse presto il Banti – e il Signorini, spiritoso, snob, scrittore delle gazzette e quindi dispensiere di fama.

Ciò non toglie che fin da allora la pittura del Boldini, caratterizzata da quella spontanea naturalezza per cui a vedere un suo quadro si ha la sensazione che egli dipingesse così come un altro parla, meglio ancora mangia o respira, attirasse su di lui l’attenzione anche dei più intemerati macchiaioli.

Fu a Parigi la prima volta nel ’67 in occasione dell’esposizione Universale. Nel ’70 a Londra – ed è lì che cominciò a dipingere assecondando il gusto degli aristocratici inglesi. Poi tornò a Parigi che non lasciò più e battendo la stessa via mondana sulla quale aveva ottenuto tanto successo il de Nittis lavorando per Goupil, in pochissimo tempo si impose, «Il movimento istantaneo del riso beffardo dell’ironia, e del convulso di una risata, ciò che insomma è più incopiabile per essere naturalmente fugace, volubile in natura, fa tutta la potenza dell’arte sua. E il sentimento d’intuizione d’una epoca prende anche lui tale sviluppo da…renderla con la più grande realtà» (Signorini, 1874).

Cominciava egli appunto allora il ritratto di un’epoca, di quell’epoca che, anche per merito suo, ancora oggi pensiamo allegra, volubile, felice. Il ritratto di un mondo che si sgretola, si disfà, scivola, s’annulla nella stessa psicologia spicciola, ironizzante dei suoi personaggi ch’egli attende come al varco nel suo studio di Boulevard Berthier onde coglierne, spesso beffardo o indulgente, con pochi tratti dei suoi lunghi pennelli intrisi in un colore fluido e brillante i facili intimi segreti.

Ma tornando alla mostra pistoiese e all’opera giovanile della Falconiera i cui affreschi strappati e ricomposti risultano, nel museo del Antico Palazzo dei Vescovi, nella medesima disposizione originale della sala da pranzo della villa di Isabella Falconer, ispirati secondo tradizione iconografica a dei cicli affrescati dedicati ai quattro elementi empedoclei: la Terra, l’Aria, l’Acqua e il Fuoco.

Quella che è stata composta appare come una vera e propria sinfonia agreste in quattro movimenti, uno per ogni parete della sala, pensata con l’obiettivo di costituire un organico ciclo dedicato agli elementi fondanti della Natura: i monumentali bovi maremmani, eroici nella grandiosa immobilità, indifferenti di fronte all’umile lavoro dei braccianti impegnati a stendere il fecondo letame sui campi (parete nord: la Terra) lo spalancarsi improvviso della veduta marina sul promontorio lontano, in campo lungo che si appoggia sugli scogli in primo piano e scorre rapidissimo fino all’orizzonte, dove la ciminiera di un piroscafo riga il cielo con una striscia di fumo, perso nell’immensità delle nuvole; il solitario passatempo di una guardiana di capre, sopra la porta della medesima parete, intenta ad intrecciare la paglia sulla riva del mare, tutta assorta nel suo compito, di fronte all’ampia veduta marina, punteggiata dal volo dei gabbiani e delle vele lontane (parete est: l’Acqua); l’incrocio di dolci aranci e di ardite palme, svettanti selvaggiamente nell’aria in un intrico di forme vegetali che sembra evocare una giungla primitiva, più che la solare natura mediterranea; la scena, dall’altro lato della porta, dove una contadina, atteggiante con classica compostezza, china la schiena per raccogliere i poveri panni tolti dal filo, mentre nel cielo, schermato da un motivo di canne e di rami di signoriniana eleganza, si addensano le nuvole e le rondini solcano, come impazzite, l’aria satura di umidità (parete sud: l’Aria); i corpi dei contadini spossati dopo una mattinata di duro lavoro, distesi all’ombra di un covone per sfuggire al calore del sole, in un fugace momento di riposo, tra una fumata e due chiacchere scandite dal canto delle cicale e dal rombo di un’estate rovente, con il forcone che spunta minacciosamente in primo piano; l’ergersi improvviso di un pagliaio modellato architettonicamente dalle mani dell’uomo, in corrispondenza dell’originario caminetto scoppiettante per riscaldare la sala da pranzo, contro un cielo spazzato di nuvole bianche e grigie, che sembrano correre leggere e veloci davanti al nostro sguardo; infine i gesti ritmicamente scanditi e ripetitivi dei battitori di grano sull’aia, mentre una contadina evanescente come un fantasma, riemersa da una prima stesura, avanza verso di noi con le mani sollevate sopra la testa per reggere una cesta, come una cariatide bretoniana (parete ovest: il Fuoco).

 

Maria Paola Forlani


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