In un passo di un suo poemetto, intitolato “La realtà”, Pasolini paragona se stesso a una “strega buona che caccia le streghe per terrore”; il terrore di essere riconosciuta.
In questi versi Pasolini rievocava un periodo lontano della sua vita, probabilmente l'adolescenza, vissuta sotto il fascismo, durante la quale, essendosi già scoperto “diverso”, spaventato da quella diversità, per nasconderla agli occhi degli altri, avrebbe assunto un atteggiamento sprezzante, razzista, nei confronti delle persone diverse come lui.
Quando si tratta di minoranze, specie di minoranze discriminate, il cinema può avere la tentazione di idealizzarle, quasi di santificarle, come per compensare la persecuzione di cui sono vittime.
È dunque raro, e per me pregevole, perché spregiudicato, veritiero, il punto di vista – che ha qualche affinità, come vedremo, con la confessione di Pasolini – con cui la regista svedese di origine lappone Amanda Kernell, nel suo film intitolato Sami blood affronta il tema della discriminazione di cui la minoranza sami (meglio conosciuta come lappone) è stata oggetto negli anni Trenta in Svezia (ma il film evidenzia che almeno tra le persone anziane certi pregiudizi contro questa etnia ancora sussistono).
Il film racconta di una ragazza, nata e cresciuta in una famiglia lappone dedita all'allevamento delle renne (uno dei mestieri tradizionali dei lapponi). Studia in una delle scuole-ghetto che lo Stato svedese riservava alla sua gente e che non davano accesso agli Istituti di istruzione superiore. Il suo corpo è misurato e studiato da certi scienziati, specializzati nella cosiddetta “biologia delle razze”, come quello di una bestia rara. È sbeffeggiata e aggredita da ragazzi svedesi del vicinato. E il risultato di questa emarginazione, di questa persecuzione, è che lei, un po' come “la strega” pasoliniana, finisce per detestare la gente del suo sangue.
Tanto che un giorno, per raggiungere un ragazzo svedese che ha conosciuto a una festa da ballo e di cui si è invaghita, si spoglia dei suoi abiti tradizionali, abbandona la sua famiglia, si attribuisce un falso nome svedese, e parte per Uppsala, la città dove risiede quel ragazzo.
In apparenza si tratta soltanto di una fuga per amore. Ma il film, che ci mostra quella città, la casa e la famiglia perbene del ragazzo, gli interni del collegio riservato ai privilegiati svedesi, attraverso lo sguardo incantato della protagonista, ci lascia intendere come, dietro l'amore, si nasconda un altro desiderio: il desiderio di appartenere alla maggioranza, di essere considerata normale.
Insomma: Sami blood indaga con sottigliezza, con rigore, quel sentimento velenoso che è “il razzismo di secondo grado”, quel razzismo indotto da altro razzismo, e che divide, mette in conflitto, le stesse persone ingiustamente discriminate.
Tra le qualità del film, c'è quella di saper far parlare i personaggi più attraverso le espressioni del loro volto che attraverso le parole che pronunciano. In particolare il volto della protagonista – interpretata da Lene Cecilia Sparrock – è così suscettibile di sfumature espressive, esprime così compiutamente tutta l'evoluzione della sua passione colpevole (vissuta con senso di colpa), che il film, che pure comprende numerosi personaggi, può essere considerato prima di tutto un suo monologo interiore, prevalentemente muto. Ma restano nella memoria anche le figure della sorellina, mite, ma profondamente ferita dal suo rifiuto; e della madre, chiusa in una dignitosa rassegnazione.
Sami blood, che ha vinto pochi giorni fa il Premio Lux assegnato dal Parlamento Europeo, è distribuito in un circuito di sale alternativo da due distributori indipendenti: CineMaf e Cineclub Internazionale. A Roma può essere visto nella sala Apollo 11. Se lo trovate programmato nella vostra città, vi suggerisco di andare a vederlo.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 9 dicembre 2017
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