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Alberto Figliolia. “Fine pena: ora” di Paolo Giordano 
Milano, Piccolo Teatro “Grassi”, fino al 22 dicembre
Foto di Masiar Pasquali
Foto di Masiar Pasquali 
07 Dicembre 2017
 

Mi sono impiccato. Mi scusi, non lo farò più”. Chiedere scusa per aver tentato di togliersi la vita è l'ennesima distorsione prodotta dalla detenzione: in carcere si è sempre dalla parte del torto, qualunque cosa si faccia. Ma in quel chiedere scusa io lessi anche altro, il primo implicito accenno a quel patto tacito di ventisei addietro: tu mi accompagnerai, io resisterò. Non ce l'aveva fatta. Aveva resistito ventisei anni, poi il carico era diventato insostenibile. […] Come l'uomo non è mai del tutto racchiuso nel gesto che compie, essendo l'individuo assai più ampio del suo delitto, così la rieducazione non può essere confinata in un solo sintomo, essendo un percorso dalle molte opportunità, tante quante le notti insonni che il condannato passa interrogandosi sul senso della sua vita. (Elvio Fassone, magistrato e scrittore)

 

 

Un uomo non può essere ridotto alla sua colpa. Se il reato – ogni reato, in primis quelli di sangue, è assimilabile a un peccato originale ex tunc per il quale nessun battesimo può cancellare i devastanti effetti giacché le vittime rimangono tali (e i parenti delle vittime restano sovente immersi in un ottuso fluido di dolore e oblio) – è al contrario ed egualmente vero che nessun uomo rimane uguale a sé stesso nell'arco temporale del proprio esistere (così come un bambino è il padre dell'adulto che diverrà).

Salvatore è stato condannato all'ergastolo per la molteplicità dei reati ascrittigli, sei omicidi compresi. Da un brodo sociale e familiare di pesante degrado e abbandono non poteva che sortire una precoce attitudine alla devianza criminale. Il Giudice che alla fine del maxiprocesso in un'aula bunker gli commina, in forza degli articoli e commi di legge, la pena dell'ergastolo rimugina comunque fra sé e sé su quel triste caso umano.

Salvatore ha ventidue anni, neppure la licenza elementare in tasca, un passato (seppur ancora breve) di pessimi modelli comportamentali e (già tante) triste azioni sul groppone, e dovrà passare ciò che rimane della sua vita in gabbia. Per sempre. Lì sfiorirà la sua giovinezza, in realtà mai vissuta, nell'inerzia di un tempo sempre uguale, costretto a una dimensione anomala, straniante e straziante, fra neri abissi di disperazione e inconsapevolezza (uno dei passi più ardui è acquisire coscienza del male compiuto e delle sue ripercussioni). Ma l'esistere è sempre sorprendente. Il Giudice, mosso da pietas, scrive, poco dopo avere pronunciato la durissima sentenza, al giovane, aggiungendovi in dono un libro di poesie. Inizia così uno straordinario percorso che accomuna il magistrato e il reo: un rapporto epistolare quasi trentennale, di crescita reciproca, non solo quindi del condannato il quale pian piano emerge dalle brume della bruta ignoranza. Nonostante i sei anni di isolamento, di 41 bis, e la conseguente interruzione della corrispondenza scritta il rapporto non cesserà, anzi riprenderà con vigore.

Una storia vera, densissima, in cui l'opaco muta in speranza e nuove possibilità. Anche se dopo ventisei anni Salvatore, disfatto dalla detenzione, tenterà il suicidio impiccandosi. Si salverà per l'intervento di un agente e del proprio gesto autodistruttivo poi si scuserà in una lettera al Giudice.

Elvio Fassone, quel magistrato, ha scritto nel 2015 un libro intorno a quest'avventura umana, Fine pena: ora (edito da Sellerio), adesso trasformato in pièce teatrale da Paolo Giordano e in scena allo storico Teatro Grassi di Milano sino al 22 dicembre. L'interpretazione dei due personaggi sul palcoscenico – Sergio Leone nei panni del Giudice e Paolo Pierobon in quelli di Salvatore (splendida la sua sicilianizzazione linguistica) – è, a dir poco, portentosa (e mai sopra le righe, per quanto il dramma inevitabilmente, di per sé, tracimi).

Ha scritto Paolo Giordano, artefice di questa magnifica scrittura teatrale: «A teatro Salvatore e il suo giudice si parlano “fuori dal tempo” o, per meglio dire, come “dimentichi del tempo”. Vivono in un qui e ora, ma possono tornare ad abitare improvvisamente il passato. Sono fantasmi in grado di attraversare non solo i muri del carcere, ma anche gli anni. Fantasmi, sì, perché ognuno è lo spettro immateriale evocato dall'altro. Si trovano entrambi nella stessa stanza, sullo stesso palcoscenico, eppure sono costantemente separati. Il giudice nella propria casa e Salvatore nella sua cella, insieme e tuttavia soli – proprio come accade anche a noi ogni volta che scriviamo una lettera a qualcuno».

Fine pena: ora è una storia colma di suggestioni e di innumerevoli spunti di profonda meditazione. Un grandissimo teatro civile, forte, d'impatto. Vale davvero la pena di riflettere su ciò che oggi rappresenta il FINE PENA: MAI o, in un'altra accezione, il FINE PENA: 31 DICEMBRE 9999... Una condanna a morte dilazionata nell'eterno di giorni, ore, minuti, secondi da vivere/non vivere... Uno stillicidio infinito. Quanto di più contrario, con ogni probabilità, allo spirito civile e riabilitativo della pena, così come prescriverebbe il dettato costituzionale (art. 27). Ma, se questa può essere una considerazione di chi scrive, rimane l'essenza umana di una vicenda unica: il moto d'avvicinamento fra persone, oltre i ruoli codificati che parrebbero fissati ab origine. Il “messaggio” di Fine pena: ora è che una palingenesi è sempre possibile, e anche una pacificazione dell'anima. Si può rivivere, crescere, mutare in altro dall'orrore di cui si era inseminati. La pietà e la compassione, nel senso più nobile dei termini, possono essere materia di questo mondo e nessuna grata di sbarre è per sempre se il cuore si libera, se la mente s'intride di empatia. Fine pena: ora...

La chiosa al regista Mauro Avogadro: «Mi piacerebbe suscitare due reazioni. In primo luogo un interrogativo in più su che cosa voglia dire decretare la morte civile di una persona. In fondo l'ergastolo sta un passo indietro, ma forse non troppo, alla cosa peggiore che io possa immaginare: la pena di morte. Se è orribile che una comunità, uno Stato, stabilisca di togliere la vita a un altro essere umano, è altrettanto vero che il fine pena: mai è la stessa condanna sotto mentite spoglie. Quindi, come può la società difendersi da chi si macchia di atrocità senza farsi essa stessa carnefice? Secondariamente vorrei che gli spettatori pensassero che forse anche mondi diversi possono incontrarsi. Rifuggo dalla retorica del “siamo tutti uguali, non esistono differenze”, ma è vero che, forse, esiste un ponticello sul qual possiamo incontrarci».

 

Alberto Figliolia

 

 

Fine pena: ora di Paolo Giordano, liberamente tratto dal libro di Elvio Fassone, Regia: Mauro Avogadro. Con Sergio Leone e Paolo Pierobon. Assistente alla regia: Pasquale Di Filippo. Scene: Marco Rossi. Assistente scenografa: Giulia Breno. Costumi: Gianluca Sbicca. Luci: Claudio De Pace. Musiche: Gioacchino Balistreri.

Fino al 22 dicembre. Piccolo Teatro Grassi, via Rovello 2, Milano (MM1 Cordusio).

Orari: mar, gio e sab 19:30; mer e ven 20:30; dom 16:00; lun riposo; ven 8/12 chiuso.

Prezzi: platea 33 euro, balconata 26 euro.

Info e prenotazioni: tel. 02 42411889; www.piccoloteratro.org.

News, trailer, interviste ai protagonisti su www.piccoloteatro.tv.


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