Lunedì 15 giugno 1885, una splendida giornata di sole. Il grande orologio, che campeggia sulla facciata della chiesa parrocchiale di san Giovanni Battista, ha da poco segnato l’una pomeridiana, nella tranquilla borgata di Morbegno. Un gruppo vivo di case e strade che, proprio quel giorno, senza rendersene conto appieno, sta vivendo un momento magico della sua storia. Ci vorrà ancora un po’ di tempo, ma poi… niente sarà più come prima. Sono secoli che Morbegno si distende raccolta ai piedi delle Orobie. Il suo confine a settentrione si ferma appena dietro la chiesa parrocchiale di san Giovanni Battista, dove ha inizio la Via Borgosalvo. Da quel fazzoletto di terreno che sta per diventare una piazzetta (Largo Felice Cavallotti) e che, in futuro, si trasformerà in una vasta piazza, cambiando il nome (Piazza XXVIII Ottobre e, oggi, Piazza Caduti per la Libertà), si vede in lontananza emergere solitario e malinconico nel verde – vigneti, orti, frutteti, prati – il frontone del Teatro Sociale, un tempo la facciata della chiesa di san Francesco, sede del convento dei Cappuccini. Più avanti, lo sguardo, verso nord, si perde in lontananza. Si scorgono soltanto casolari isolati nella vasta campagna, giù verso l’Adda. Morbegno, sullo scorcio del XIX secolo ha superato i 4.000 abitanti e per ospitarli tutti non si è mai estesa verso l’Adda e le Alpi Retiche. Ha sempre preferito alzare, e di molto, le case nel vecchio centro storico. Basta fare ancor oggi una passeggiata, prendendo le mosse dal vecchio ponte sul Bitto: Via Pretorio, Via Garibaldi, Via Ninguarda… e lo si constata facilmente. Si dice che la fortuna e l’importanza di una città, e perfino il carattere dei suoi abitanti, siano delineati in qualche modo già dalla sua posizione geografica, dal paesaggio, nella maniera di aprirsi o, al contrario, di chiudersi alle influenze esterne. È proprio vero. Una città è come un organismo vivo. Le arterie e le vene sono le sue strade e le sue piazze; il cuore è nel centro storico con gli edifici più importanti e significativi. Ecco: quando nel 1885 si inaugura la strada ferrata, il corpo di Morbegno inizia una trasformazione che continuerà per molti anni. Si decide, tra accese polemiche, per una strada nuova e, in pochi decenni, soprattutto accanto a questa, sorgeranno edifici, che dimostrano l’assimilazione dell’architettura moderna, ormai diffusa nelle grandi capitali europee. È il segno concreto di un mondo nuovo che, nel giro di qualche decennio, muterà non soltanto le condizioni di vita, ma anche il modo di pensare e di vedere la realtà. Neppure le due guerre, con il loro insopportabile strascico di sangue e di dolore, fermeranno più il cambiamento. Morbegno assorbe profondamente gli aspetti di quella rivoluzione urbanistica iniziata, nelle grandi città d’Europa, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. A Vienna abbattono i bastioni, che proteggono il centro storico, e si crea il Ring, con tutti suoi edifici che ripercorrono secoli di storia. A Parigi il prefetto Haussmann solca la città con i grandi boulevard, per non parlare dell’ingegnere Gustave Eiffel che segna violentemente con la sua “Tour” il volto della capitale francese. E, a volo d’uccello, per la giovane nazione italiana, possiamo citare Firenze, che – distruggendo un vecchio quartiere centrale – fa nascere la Piazza della Repubblica e, oltrarno, si slancia verso San Miniato tracciando il Viale dei Colli che porta a quello straordinario belvedere che è Piazzale Michelangelo. Roma, nello stesso periodo traccia il moderno quartiere Prati, vicino al Vaticano. Nella seconda metà del XIX secolo l’intera Europa è toccata dal vento impetuoso e inarrestabile della modernità. E allora anche Morbegno pare quasi risvegliarsi e trasformarsi. Molto più lentamente delle grandi città europee, ma in modo irrevocabile, in tutte le sue dimensioni: urbanistica ed economica soprattutto. Nascono o si sviluppano le fabbriche. Qualche nome, a mo’ di esempio: Rocca, Ghislanzoni e Biffi (conserve alimentari), Martinelli (industria siderurgica), Lusardi, Parravicini, Leali (falegnameria). E poi come non ricordare i numerosi artigiani, maestri del ferro battuto, del legno e nelle più varie attività che porteranno Morbegno a triplicare i suoi abitanti nel corso di poco più di un secolo. Questo secondo volumetto della collana “Conosci Morbegno”, opera di Francesco Lazzari come il precedente, diventa un compagno di viaggio prezioso. Ricco di documenti d’archivio e di immagini fotografiche d’epoca, ci permette di osservare la Morbegno mentre, a cavallo tra Ottocento e Novecento, si lancia in un grande ed epocale cambiamento. Intanto, anche nel capoluogo della bassa Valtellina, nei primi decenni del Novecento, grandeggia e lascia tracce durature un valente ingegnere. Si chiama Luigi Buzzetti. Tocca a lui progettare, e realizzare, sul nuovo tracciato che porta alla stazione ferroviaria alcuni edifici di pregio. Costruzioni che ancor oggi si fanno ammirare per la loro semplice bellezza e per la loro armonia. L’Albergo Morbegno (oggi Banca popolare di Sondrio), l’Asilo infantile Tomaso Ambrosetti, il Palazzo scolastico “Spini-Vanoni”…
Senza dubbio uno dei prodigi di questi ultimi centosettant’anni è la possibilità di fermare l’istante con un’immagine fotografica. In questo modo possiamo ritrovare ogni giorno, quasi inavvertitamente, le nostre radici, superando la pesante coltre di fitta nebbia che ci tiene lontani – bersagliati come siamo da sciami frenetici di immagini quotidiane – dal mondo di un tempo, dal mondo di ieri, come lo chiamava Stefan Zweig. Un’epoca sfocata, che, talvolta, ha bisogno di poco per tornare al cuore. Gli antichi erano convinti che fosse questo muscolo pulsante la sede dei sentimenti. La lingua ne ha registrato questa convinzione con il verbo ricordare, riportare al cuore. Noi sappiamo bene che i ricordi navigano in alcune zone del nostro cervello, ma ci piace cullare l’illusione che anche il cuore abbia un piccolo spazio per ospitarli. Un grande scrittore del Novecento, Marcel Proust, ha avuto bisogno di una brioche (una madeleine) per riassaporare il suo passato, squadernandocelo in sette poderosi volumi, che vanno sotto il titolo d’insieme “Alla ricerca del tempo perduto”. A noi possono bastare alcune immagini in bianco e nero, alcune carte topografiche di tanti anni fa e la narrazione che Francesco Lazzari ci presenta in modo avvincente (e ci fa sapere che la strada ferrata aveva un tracciato ben diverso da quello attuale e che la stazione dei treni ha rischiato di trovare una collocazione ben lontana da quella odierna) per poter sollevare un po’ della vecchia polvere dal passato e portare alla luce una parte dell’immenso edificio dei ricordi. Per farci scoprire qualcosa di più del luogo in cui viviamo, per incuriosirci. Interessante ricordare che, da noi, la vaporiera innalzerà i suoi enormi sbuffi di fumo soltanto per quindici anni. Già nel 1900 la nostra linea, prima in tutt’Italia, venne elettrificata e il passaggio del treno sarà segnato solo dai classici lunghi fischi. Il gotha della poesia italiana d’allora (tanto per citare, tra gli altri, il Carducci e il Gozzano) ritenne immediatamente che il treno fosse più che degno di comparire nelle composizioni poetiche. Era un mezzo utile – annullava le distanze – ma rappresentava anche qualcosa di misterioso e di affascinante. Ebbene, anche il nostro valoroso intellettuale Guglielmo Felice Damiani, apprezzava molto questo mezzo di trasporto. Tra l’altro, negli ultimi anni della sua vita, partendo da Morbegno poteva arrivare a Napoli – dove insegnava alla Scuola magistrale – utilizzando esclusivamente la strada ferrata. Ed era una gran bella novità. Ecco, il suo “Idillio fugace” è una delle nove composizioni che fan parte della raccolta “Le due fontane”, pubblicata dall’editore Sandron nel 1899. Per me rappresenta, senza ombra di dubbio, l’apice della poesia di Guglielmo Felice Damiani, questo letterato di Morbegno, morto a ventott’anni. In un paesaggio bianco di neve, corre, nella notte, un treno. In un vagone, un passeggero e una donna misteriosa si guardano, fanno conoscenza e arrivano perfino a baciarsi. Ma tutto finirà bruscamente e amaramente… “Oh, ma quanto fu breve / quell’idillio fugace! / Il treno, entro la neve, / rallentò la sua corsa a una stazione / minuscola e deserta. / E la porta fu aperta…”. La strada ferrata, il treno e una stazioncina diventano in una poesia del 1899 i protagonisti di un momento di passione, la scenografia ideale di un attimo caldo di vita.
Renzo Fallati
»» Martedì 5 dicembre, ore 21:00, Renzo Fallati presenta il volume L’arrivo del treno a Morbegno di Francesco Lazzari – a cura dell’Associazione Omnibus »» info evento fb
Francesco Lazzari, L’arrivo del treno a Morbegno
Il progetto del “Viale che mette alla stazione”
[CONOSCI MORBEGNO 2]
LABOS Editrice, pp. 84 (riccamente illustrato), € 15,00