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Carlos Alberto Montaner. Un anno senza Fidel
(Foto EFE/Alejandro Ernesto)
(Foto EFE/Alejandro Ernesto) 
28 Novembre 2017
 

Raúl è il presidente perché così ha deciso Fidel. Per lui era una persona mediocre, senza preparazione e senza carisma, ma assolutamente leale, una virtù che i paranoici apprezzano sopra a tutte le altre, perciò gli ha costruito una biografia per trasformarlo nel suo scudiero

 

 

È passato un anno dall’annuncio della morte di Fidel. Sembra un secolo. Per più di un decennio, dal 26 luglio del 2006 fino al 25 novembre del 2016, ha vissuto con un piede nella tomba. Questa agonia al rallentatore è stata molto utile al fratello Raúl. Gli è servita per abbarbicarsi alla poltrona presidenziale e per far sì che i cubani si adattassero al suo controllo, mentre lui si rinsaldava nel potere e trovava persone di fiducia.

Raúl è il presidente perché così ha deciso Fidel. Per lui era una persona mediocre, senza preparazione e senza carisma, ma assolutamente leale, una virtù che i paranoici apprezzano sopra a tutte le altre, perciò gli ha costruito una biografia per trasformarlo in suo scudiero. Lo ha trascinato nella rivoluzione. Lo ha fatto Comandante. Lo ha fatto Ministro della Difesa. Lo ha fatto vicepresidente e, infine, gli ha lasciato in eredità il potere dando inizio alla dinastia dei Castro.

Da allora Raúl governa nel suo ambito familiare. Con sua figlia Mariela, una sessuologa irrequieta e linguacciuta. Con suo figlio, il colonnello Alejandro Castro Espín, formato nelle scuole di intelligence del KGB. Con suo nipote e guardia del corpo Raúl Guillermo Rodríguez Castro (figlio di Déborah). Con suo genero o ex genero (non si sa se sia ancora sposato con Déborah o se abbiano divorziato), il generale Luis Alberto Rodríguez López-Calleja, comandante di GAESA, la principale holding militare cubana.

Lo stesso Raúl perse la fiducia nel sistema negli anni ottanta del secolo scorso quando spedì molti ufficiali in centri europei per apprendere tecniche di gestione e marketing

Queste sono le persone che governano insieme a Raúl, ma hanno tre problemi gravissimi. Il più importante è che a Cuba sono rimasti davvero in pochi a credere nel sistema. Sessanta anni di fallimento sono troppi per conservare la fede in questa assurdità. Lo stesso Raúl perse la fiducia nel sistema negli anni ottanta del secolo scorso quando spedì molti ufficiali in centri europei per apprendere tecniche di gestione e marketing.

Perché i militari cubani dovevano padroneggiare queste discipline? Per realizzare il “Capitalismo Militare di Stato”, unico e devastante apporto intellettuale cubano al postcomunismo. Lo Stato si riserva le 2.500 imprese medie e grandi del sistema produttivo (hotel, banche, fabbriche di rum, birra, cementifici, aziende siderurgiche, porti e aeroporti, ecc.) condotte da militari o ex militari di alto rango. Quando non possono sfruttarle direttamente per mancanza di capitale o di conoscenze, si uniscono a un imprenditore straniero a cui offrono ottimi profitti e che controllano, questo sì, come il peggiore dei nemici.

Nel contempo, ai cubani è proibito creare grandi aziende. Devono limitarsi a piccoli spazi di servizio (ristoranti), a fare pizze, friggere crocchette, o friggere sé stessi per fare i tassisti. A loro è vietato accumulare ricchezze o investire in nuove attività, perché l’obiettivo non è che gli imprenditori impieghino il loro talento e ottengano i guadagni, ma che assorbano la mano d’opera che lo Stato non può sfruttare. A Cuba, al contrario che in Cina, arricchirsi è un reato. Vale a dire, il peggio dei due mondi: lo statalismo controllato dai militari e il micro capitalismo legato mani e piedi.

I partiti comunisti sono segregati da una dottrina, il marxismo, che nel perdere ogni significato trasforma il PC in una questione puramente rituale

Il secondo problema è che il Partito Comunista non significa nulla quasi per nessuno a Cuba. In teoria, i partiti comunisti sono segregati da una dottrina, il marxismo, che nel perdere ogni significato trasforma il PC in una questione puramente rituale. È ciò che successe nell’URSS. Siccome nessuno credeva nel sistema, il PC venne liquidato con un decreto e 20 milioni di persone si ritirarono nelle loro case senza versare una lacrima.

Il terzo è che Raúl è un uomo molto vecchio, di 86 anni, che ha giurato di ritirarsi dalla presidenza il prossimo 24 febbraio, anche se probabilmente rimarrà nascosto nel Partito. In ogni caso, fino a quando vivrà? Fidel è durato 90 anni, ma è sufficiente leggere i suoi scritti degli ultimi anni per comprendere che aveva perso molte facoltà. Il maggiore dei maschi, Ramón, morì a 91 anni, ma da diversi anni soffriva di demenza senile.

La somma di questi tre fattori prelude a un finale violento per il castrismo, magari a spese di qualche militare, salvo che l’erede di Raúl Castro (ufficialmente Miguel Díaz-Canel, primo vicepresidente, ma potrebbe essere qualcun altro) non opti per una vera e propria apertura politica e smantelli il sistema in modo organizzato per evitare che lo abbattano e che le macerie crollino su questa fragile struttura di potere.

Per queste necessità servono i processi elettorali, ma i raulisti si sono già fatti carico di bloccare il centinaio di oppositori disposti a partecipare ai prossimi comizi, mentre si rifiutano di ammettere la consulta proposta da Rosa María Payá, la figlia di Oswaldo Payá, un dirigente assassinato per aver chiesto ciò che oggi, coraggiosamente, reitera la ragazza. Insomma: Raúl darà al suo successore uno scossone terribile. La dinastia morirà con lui.

 

Carlos Alberto Montaner

(da 14ymedio, 19 novembre 2017)

Traduzione di Silvia Bertoli


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