Una delle ragioni per cui, a mio parere, certi drammi teatrali, magari ritenuti dei classici, una volta messi in scena risultano ostici agli spettatori di oggi, “pesanti”, è che quei drammi tendono a volte piuttosto che a rappresentare ciò che avviene nel presente, a raccontare, attraverso le battute dei personaggi, ciò che è avvenuto nel passato.
La “pesantezza” deriva dallo sforzo di visualizzare quei fatti attraverso le parole pronunciate dagli attori; abituati oggi come siamo, dal cinema e dalla televisione, alla più immediata descrizione visiva di ogni avvenimento. (La parola scritta, che può essere assimilata più lentamente, favorisce, rispetto alla parola orale, questo esercizio di visualizzazione interiore, almeno per il pubblico più recettivo).
Questa premessa serve a evidenziare l'originalità e il rischio dell'ultimo film di Paolo Genovese, intitolato The place. Un film nel quale i fatti principali restano fuori scena, o meglio: fuori campo. Mentre ciò che vediamo sullo schermo, sono dei personaggi che li raccontano.
Eppure, il film di Genovese, non sarà raccomandabile per chi al cinema si annoia se non vede un film d'azione, ma evita il rischio della pesantezza; e non risulta nemmeno un virtuosismo gratuito.
Anzitutto, in omaggio ai ritmi dei programmi televisivi e del cinema di consumo, i personaggi che raccontano le loro vicissitudini, si alternano con rapidità.
E poi i loro racconti avvengono in dialogo con un personaggio misterioso, carismatico, che capta la loro fiducia, pur non essendo mai compiacente con loro; perché anzi li giudica con tutta la severità che essi meritano. E le sue reazioni, equilibrate, sagge, commisurate ai discorsi che ascolta, suscitano il nostro interesse.
Lo si potrebbe identificare con il diavolo, dal momento che propone ai clienti che si avvicendano al tavolo del bar dove trascorre le sue giornate, un patto magico e scellerato: essi potranno realizzare i loro desideri più profondi, se commetteranno un atto, che l'uomo decide apposta per ognuno, che è quasi sempre malvagio.
È anche vero però che l'uomo sembra assecondare certe resipiscenze dei suoi clienti, certa loro refrattarietà a commettere quei crimini.
Ma il tono prevalente del racconto è cupo e pessimistico. In cambio della loro egoistica felicità, gli uomini sembrano propensi a commettere perfino rapine, pestaggi violenti, stupri, infanticidi, stragi. E quando compiono un gesto apparentemente altruistico – un uomo per esempio rapisce una bambina, che un altro cliente è stato incaricato di uccidere – il suo vero movente, si scopre, è la vanità, il vagheggiamento di sé come eroe.
A voler dare una lettura religiosa del film – una lettura che gli è consona, vista l'atmosfera soprannaturale che lo permea per intero – si può ritrovare in The place un fondo luterano, perché, come nella predicazione del monaco tedesco, l'umanità, come gravata dal peccato originale, appare qui fatalmente incline al male, se non intervenisse a volte a salvarla la grazia di Dio. Come capita nel finale del film, quando, proprio mentre le cose sembrano volgere al peggio, inopinatamente, miracolosamente, in alcuni personaggi si fa strada la luce del Bene.
The place schiera un gruppo di attori bravi e popolari – da Silvio Muccino ad Alessandro Borghi, da Giulia Lazzarini a Sabrina Ferilli – ognuno dei quali sembra pienamente congeniale al personaggio che interpreta.
Fra tutti, anche per il ruolo che riveste nella vicenda – che sia appunto quello del diavolo, o di un giudice o di un confessore – spicca Valerio Mastandrea che offre un'interpretazione molto ben misurata e sfumata.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 25 novembre 2017
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