Sabato 11 novembre, presso il complesso museale di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, nel centro storico di Napoli, è stata inaugurata una personale dello scultore Lello Torchia a cura di Krista Brugnara. Il titolo della mostra, Bilico (volutamente tronco della preposizione semplice “in”, la quale porrebbe un accento non sulla condizione d’indeterminatezza in sé ma sul soggetto inespresso la cui transizione è oggetto d’indagine), è un chiaro riferimento alla condizione di precario equilibrio in cui si vengono a trovare le anime purganti e denuncia fin da subito il linguaggio metaforico adottato. Perfino il numero di interventi, tre, assume una particolare valenza simbolica: esso è universalmente ritenuto un «numero perfetto», emblema di completezza per antonomasia, nonché espressione del dogma della Trinità di Dio. Non bisogna poi dimenticare l’importanza che tale numero assume nell’opus magnum dantesca – suddivisa, appunto, in tre Cantiche, corrispondenti ai tre Regni dell’Oltretomba e composte da trentatré Canti ciascuna –1 cui è liberamente ispirata l’opera scultorea Sette P. Qui la poetica di Torchia è evidente, forse ancor più che negli altri lavori presenti, i quali, pur dialogando in misura maggiore con l’affascinante spazio espositivo, devono più alla sensibilità personale che all’esperienza lavorativa dell’artista. Il volto nudo, sproporzionato, privo di lineamenti o altri elementi identificativi, è infatti un motivo ricorrente nella cifra stilistica di Torchia. A volte una sineddoche che incarna il genere umano nel suo insieme (il Volto dei Volti del Mondo), come accade nel caso succitato, ma più spesso un gruppo o una tipologia di persona, l’archetipo di una classe sociale o di un’aggregazione omogenea d’individui.
Anna Adell scrive, in occasione della mostra Rebirth del 2015: «Il contesto napoletano, le sue origini, caratterizzano il suo fare artistico. Nel rispetto per la tradizione, nella ricerca costante di un linguaggio proprio e attuale “dall’orlo estremo di una qualche età sepolto”, ci sembra di percepire la vicinanza e la forza di Pompei, di una cultura congelata nel tempo da una patina di cenere vulcanica, che si concretizza nella fresca visione di un inquietante accordo tra la fragilità e l'eterno». Ma la ricerca di Torchia, ad oggi, si spinge parecchio al di là dell’assunto in questione, tanto che anche la testa non è più assimilabile quale «struttura dove nascono i concetti; scatola aperta che, attraverso la riflessione, manipola l’ordine epidermico del volto caricandolo della corporeità vissuta».2 Mai come in questa scultura la testa diviene rappresentazione della nostra identità collettiva, e non perché l’artista creda alla teoria secondo cui l’anima risiede nella ghiandola pineale al centro del cervello, né per via di una qualche strana dottrina sociologica, ma perché, in sostanza, è il nostro volto a renderci quelli che siamo, a conferirci la nostra identità; è il volto quello che troviamo sui nostri documenti di riconoscimento, sulle riviste patinate o l’Immagine del Profilo di Instagram; ed è attraverso l’appiattimento delle caratteristiche del volto che l’artista vuole svelarci l’omologazione di massa nella società occidentale: un’omologazione spirituale, prima ancora che di pensiero o emotiva.
Interessante anche la citazione letteraria tratta dal Purgatorio, Canto IX: le sette P, rappresentazione dei sette peccati capitali, che l’Angelo Guardiano incide sulla fronte del poeta. Quando si parla di Purgatorio, in Italia, simili citazioni sono d’obbligo e Torchia non rappresenta un’eccezione, anzi. Eccezionale, qui, è il modo, la naturalezza con cui una citazione colta viene accostata a un lavoro che fa della semplicità il proprio punto di forza, la sua maggiore virtù. Scelta semplice, ma d’incredibile impatto, è stata modificare il supporto dell’opera affinché risultasse in bilico all’osservatore; scelta semplice, ma d’incredibile impatto, è stata paragonare la condizione delle anime purganti, e per estensione dell’uomo in generale, a quella di funamboli che sfidano il vuoto, camminando parallelamente fra loro su entrambi i lati della vita; scelta semplice, ma d’incredibile impatto, è stata servirsi di una pratica devota, ripetitiva, come il rosario mariano, per descrivere una condizione esistenziale che riguarda da vicino anche i meno devoti di noi.3
Marco Amore
1 A parte l’Inferno, che include anche il Canto Introduttivo (nda).
2 Dal testo Proximity, di Jean Marie Duhamel (nda).
3 Ho deciso di focalizzare la mia attenzione su un lavoro, ignorando quasi del tutto Bilico e Rosario, in quanto gli stessi sono stati ampiamente vivisezionati dal testo critico della curatrice Krista Brugnara, facilmente reperibile sul web (nda).