L’artista lombardo più estroso del ‘500 è Giuseppe Arcimboldo (Milano, 5 aprile 1526 – Milano, 11 luglio 1593), che reagisce alla tradizione, rifugiandosi nella fantasia. Non ignora la realtà; parte anzi da essa traendone gli elementi, che organizza però in maniera del tutto diversa da come appaiono in natura.
Giuseppe Arcimboldo, dopo la spettacolare mostra milanese a Palazzo Reale del 2011, torna a essere protagonista di una rassegna aperta a Palazzo Barberini di Roma, a cura di Sylvia Ferrino-Pagden. Benché meno importante dell’edizione milanese, la versione romana appare egualmente esemplare per qualità, sintesi e completezza.
Arcimboldo era figlio d’arte, suo padre Biagio era un artista in contatto con l’ultima generazione dei leonardeschi milanesi (come Cesare da Sesto, presente in mostra con la Madonna dell’Albero di Brera), e tra gli esercizi compiuti dall’apprendista Giuseppe ci fu certamente lo studio e la copia dei disegni leonardeschi, caricature comprese. Il gusto per le teste “bizzarre” deve essere scaturito proprio dai disegni di Leonardo. Ma la Milano in cui Arcimboldo si stava formando era una delle capitali del lusso. La mostra espone preziose armature da parata cesellate e decorate, mirabolanti oggetti in cristallo di rocca e in marmi rari, orologi e oreficerie raffinatissime, tutte made in Milan.
Arcimboldo lavora inizialmente a stretto contatto con il padre Biagio, assieme al quale realizza cartoni per alcune vetrate del Duomo di Milano (due bellissimi esemplari sono presenti in mostra). Poi, comincia ad agire in autonomia e, con il collega Giuseppe Meda, dipinge, ad esempio, un grande affresco nel Duomo di Monza (1556).
Il maestro però non si affermerà come frescante, quanto piuttosto come abilissimo ed eclettico disegnatore: oltre a fornire altri cartoni per le vetrate della cattedrale milanese, il maestro progettò un grande arazzo per il Duomo di Como (presente in mostra) e iniziò a produrre bellissime tavole con animali e altri soggetti tratti dal mondo naturale. Tuttavia non fu solo la natura ad attirarlo. Arcimboldo si legò a un circolo d’artisti e intellettuali milanesi, raccolto attorno a Giovanni Paolo Lomazzo, che si proponeva di indagare il mondo naturale e la persona umana facendo leva sugli aspetti più insoliti, bizzarri e stravaganti.
Fu in questo contesto che nacquero le prime sorprendenti “teste composte” di Arcimboldo. L’artista scelse in particolare due soggetti: le Quattro Stagioni e i Quattro Elementi della natura.
Le “teste composte” sancirono la fama internazionale di Arcimboldo. Nel 1562 il maestro lasciò Milano e si trasferì a Vienna, dove l’anno seguente divenne pittore dell’imperatore Ferdinando I, e si mise alle dirette dipendenze dell’arciduca Massimiliano, che sarebbe succeduto al padre come imperatore poco dopo, nel 1564.
Arcimboldo divenne innanzitutto il ritrattista di corte (bellissimi, in mostra, i ritratti delle figlie di Ferdinando e di Massimiliano), e fu impiegato come organizzatore di feste e di tornei, per i quali disegnò costumi e apparati. A Vienna convisse con altri artisti milanesi come i Miseroni, specialisti nella realizzazione di spettacolari oggetti di oreficeria.
Il fenomeno delle “teste composte” esplose alla corte di Vienna. Prima Massimiliano, e poi il successore Rodolfo II (che da Vienna trasferì la corte a Praga), furono i primi e principali collezionisti di queste singolari composizioni. In tali “teste” convergevano due importanti filoni culturali: da un lato la catalogazione della natura attraverso le tavole disegnate, e dall’altro il gusto delle mirabilia prodotte dall’uomo o dalla natura, e raccolte nelle Wunderkammer di mezza Europa.
La mostra romana mette bene in evidenza che Giuseppe Arcimboldo fu uno dei grandi protagonisti di questa cultura protoscientifica, ma evidenzia anche che l’artista volle spingersi oltre, per dar prova di ulteriori capacità virtuosistiche. Ad esempio nella realizzazione delle celebri “teste reversibili”, alcune delle quali presenti in mostra e godibili grazie a un gioco di specchi. Le “teste reversibili” sono dipinti fatti per essere visti prima da un lato, e poi ribaltati sottosopra: così, un piatto d’arrosto rigirato si trasforma nella testa di un cuoco, e una ciotola di verdura nella testa di un ortolano. Tornato a Milano dopo aver lasciato la corte di Rodolfo II, negli ultimi anni di vita Arcimboldo ritrovò vecchi amici come Giovanni Ambrogio Figino e Vicenzo Campi, in un contesto in cui si stava formando il giovane Caravaggio. I suoi dipinti vennero ammirati e studiati non solo come bizzarrie ma anche come singolari interpretazioni della realtà, proprio nel periodo in cui stava nascendo il genere autonomo della natura morta.
In vecchiaia, Arcimboldo seppe ancora prendersi gioco della seriosa ritrattistica del suo tempo, e lo fece inventandosi ulteriori “pitture ridicole”, nelle quali il ritratto di un pedante Azzeccagarbugli venne composto con scartoffie ammuffite, e quello del detto Bibliotecario venne assemblato con un disordinato coacervo di libri.
Forse è la crisi dell’umanesimo: l’uomo non più centro razionale dell’universo, ma ridotto a cosa; o viceversa è l’ultima esaltazione dell’uomo, sintesi di ogni oggetto creato dalla natura (una sua pittura ha per titolo: Homo omnis creatura, “l’uomo è ogni creatura”).
Maria Paola Forlani