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Gianfranco Cercone. “Vittoria e Abdul” di Stephen Frears
04 Novembre 2017
 

Uno degli esercizi che bisogna affrontare se si vuole tentare di valutare correttamente un film, è cogliere l'intento di quel film, il contenuto che quel film ha voluto esprimere; e considerare poi se lo ha espresso con la coerenza, la profondità, la precisione che ci si attendono da un'opera d'arte.

Nel caso di Vittoria e Abdul, il film che un eccellente regista inglese, Stephen Frears, ha dedicato all'amicizia, forse all'amore, tra la regina Vittoria e un suo valletto indiano, si incorrerebbe in un errore, a mio parere, se si volesse giudicare il film come se si trattasse di un film del tutto realistico, attenendosi al criterio della verosimigianza. Perché invece io credo che che l'autore almeno per gran parte del racconto, abbia inteso illustrare una specie di favola, i cui protagonisti sono figure ideali, quali noi vorremmo che fossero, senza le imperfezioni, i lati d'ombra, degli uomini e delle donne reali.

La regina Vittoria del film di Frears si comporta come se non fosse a capo di un vasto impero coloniale; come se il razzismo, che si direbbe la premessa necessaria del colonialismo, le fosse del tutto estraneo, fosse esclusivamente appannaggio della sua corte. È anzi proprio anche perché si sente estranea e ostile a tutta quella corte ottusa e meschina, ivi compresi i suoi più stretti familiari, che elegge a suo servitore prediletto, ma anche ad amico, a confidente, un giovane venuto dall'India a consegnarle una preziosa moneta, dono delle autorità indiane.

Quanto al giovane sembra privo di ogni ostilità nei confronti di quegli inglesi che sfruttano e umiliano la sua gente; se un'ombra di arrivismo si capta a volte nel suo sguardo, non lo involgarisce, perché ingraziarsi la sovrana sembra per lui nient'altro che un gioco delizioso; così come è un gioco, fonte di puro divertimento, presentare a corte la moglie e la suocera sigillate dalla testa ai piedi in due lenzuoli, secondo certi costumi musulmani. Del resto le sue attitudini dominanti sono la devozione, l'umiltà e la dolcezza. Ed è capace di chinarsi davanti alla regina fino a baciarle un piede, senza perdere un'oncia della sua dignità.

Insomma: i problemi, i conflitti, le negatività del mondo reale, sono soltanto alluse, attutite; non compromettono per gran parte del film il rapporto tra i due protagonisti, che resta così un puro idillio, fatto di passeggiate in campagna, di letture in comune del Corano, di conversazioni a cuore aperto.

Ma alcune allusioni, alcuni sottintesi stabiliscono la progressiva irruzione della verità in un mondo di sogno. Forse la regina è sessualmente attratta dal valletto, di grande bellezza, e reprime la sua passione. L'uomo è malato di gonorrea. E forse i suoi calcoli non sono sempre così innocenti come si è stati indotti a credere. Forse non è tanto migliore degli altri dignitari di corte.

Sarà comunque la morte della regina che spazzerà via ogni illusione. La brutalità dell'imperialismo, e il razzismo della corte, si riaffermeranno in tutta la loro ferocia.

Ma nel frattempo, Frears è riuscito a deliziarci dando corpo ai fantasmi depositati nel nostro immaginario dal mondo delle favole, comprese quelle delle Mille e una Notte, cesellandoli con maestria, grazie anche a grandi attori, che calzano a pennello nei loro personaggi, e in particolare di Judi Dench nel ruolo della regina e di Ali Fazal nel ruolo del valletto.

Quanto al personale di corte, è ritratto con un umorismo che non minimizza e non assolve le sue colpe.

Da vedere.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 4 novembre 2017
»» QUI la scheda audio)


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