Se ci guardiamo intorno, è come se ci trovassimo a vivere sul palco di un teatro, dove tutto è finzione. Il termine finzione non deve necessariamente far pensare ad un atteggiamento di falsità o di doppiezza, ma al bisogno di soddisfare la rappresentazione di se stessi o della realtà al fine di esserci, di avere un ruolo, una visibilità, un riconoscimento; la finzione era la forma d’arte per eccellenza e di grandissima importanza nella cultura ellenica. La stessa parola “attore” è un derivato di finzione ed indica appunto colui che recita. Alcuni dicono che nella nostra società la finzione è necessaria per poter vivere. È necessaria nella politica, nel sindacato, nella cultura, nella chiesa, nell’economia, nella famiglia, nelle relazioni quotidiane. Insomma è un ingrediente di cui non si può fare a meno. Certo, è innegabile che riuscire a vivere senza finzione è difficile e complesso. Come si fa, dice qualcuno, a dire veramente quello che si pensa? Ci si fa solo nemici!
L’idea sociale più corrente è quella che sostiene che non è possibile vivere senza finzione! Il rischio è grosso, perché c’è la paura di poter perdere la propria posizione acquisita, nonché di ritorsioni e di vendette. E allora si lascia correre, ci si nasconde, ci si mette la maschera e si finge. Un bel palcoscenico di una società teatrante!
Ci sono quelli che, all’opposto, non vogliono la finzione e allora denunciano tutto e tutti, con metodi fondamentalisti e barbari, senza veli, senza controllo del loro linguaggio, attaccano a viso aperto e sul piano personale, gridano e contestano la società, scendono in piazza insultando e offendendo a destra e a manca, ma nascondendo a se stessi che in effetti reagiscono alla finzione con un’altra finzione: la purezza, il possesso del bene, la libertà di pensiero, la libertà di puntare il dito contro i cattivi, i distruttori della società, i malvagi. Che chiaramente sono sempre gli altri! Mentre loro, che si professano liberi dalla finzione, credono che il loro parlare senza peli sulla lingua possa autorizzare a scadere nell’insulto, nella delegittimazione, nella calunnia e denigrazione dell’altro.
Insomma, due finzioni diverse: nella prima si finge per paura e per non perdere la propria posizione, nella seconda si pretende di rappresentare, in nome di una libertà assoluta, il bene e la verità, determinandosi le condizioni per dare spazio a furfanti sotto l’apparenza di santi.
Credo che mai come in questo momento storico, sociale e politico la malattia della finzione abbia avvinghiato tutti, per cui non è raro vedere che il coccodrillo mangia l’uomo e poi lo piange, e che colui che finge è fratello del coccodrillo; con la finzione l’attore è capace di fingere il male e il bene e di scambiarlo a seconda della convenienza.
Forse nessuno di noi, in cuor suo vorrebbe fingere, ma recitare è meglio che soccombere.
Io credo che se nella nostra società anziché ricorrere alla finzione ci si sforzasse di cercare il dialogo con umiltà, di parlare con un “linguaggio ed esempio di trasparenza e di ricerca della verità” qualche speranza di cambiamento si potrebbe nutrire.
Una società non può pensare di sconfiggere il male che in essa alligna solo con le leggi, le regole, le disposizioni, i regolamenti, i decreti, le norme giuridiche, i codici penali e civili, gli arresti e le reclusioni ma soprattutto con la cultura educativa, quella che riconosce i valori più veri e profondi che sono dentro l’uomo stesso e che bisogna fare uscire fuori, quella che vede nelle regole e nelle norme non un cappio al collo, ma una modalità etica attraverso la quale tendere alla verità nella giustizia: la verità che dice la verità, non quella che finge la verità.
Non c’è dubbio che il clima attuale in cui si dispiega il nostro Paese non favorisce la coesione democratica, acuisce la solitudine, lo scontro, germina la finzione sociale, porta all’immobilismo. Che fare? C’è una via d’uscita? Sono convinto, pensando alla politica con le sue istituzioni, che non è più questione di centrodestra e centrosinistra, di maggioranza e di opposizione o di alternanze politiche, né di “partito dell’amore” e di “partito dell’odio”, ma di caduta generale del senso etico della vita che coinvolge tutti, in alto e in basso, giovani e adulti, e con livelli diversi di responsabilità, nonché di rinuncia collettiva alla “ricerca della dimensione veritativa dell’esistenza”.
Occorrono uomini e donne disponibili ad intraprendere il cammino della verità, con la consapevolezza che si può pagare di persona e che non si è possessori della verità, perché c’è una Verità più grande che è fuori di noi e che ci ha indicato la strada da percorrere. La ripresa del nostro Paese può avvenire soltanto se si esce da questa finzione generale, cominciando ad ancorarsi, ognuno per la propria parte, ai veri valori educativi, a vie nuove d’umanesimo, al dialogo rispettoso della diversità e a sentimenti di solidarietà, pace, fratellanza e democrazia. Utopia!?
Domenico Pisana
(da Radio RTM, 1° novembre 2017)