Nota dell'autore
Soltanto lo sport riesce a coniugare democrazia e meritocrazia. Qualcuno vince, ma tutti possono partecipare. C'è chi taglia il traguardo per primo, ma tutti sono partiti dal medesimo punto. Ciascuno avrà infine avuto la sua chance. Il Leicester City Football Club insegna. E quella offertaci dalla squadra di Massimo Ranieri è stata una lezione di democrazia, di meriti guadagnati sul campo e nel duro impegno quotidiano e, persino, di solidarietà, poiché un gruppo ha raggiunto un obiettivo comune con i propri mezzi e senza barare, contro ogni pronostico o potere forte e consolidato, contro le logiche del business e del mero profitto. Un miracolo? No, un'espressione di volontà, una possibilità sfruttata, un esempio.
Lo sport, inoltre, è una delle poche attività che mantiene la sua carica di epos. Come ben dimostrano le gesta dei ciclisti: l'invincibile Alfredo Binda, pagato una volta per non correre il Giro d'Italia e restituire alla corsa un tantino d'imprevedibilità, tanta era la superiorità del ragazzo di Cittiglio; Costante Girardengo, il primo dei campionissimi, quello della magnifica canzone, Il bandito e il campione, di Francesco De Gregori; l'inossidabile e cocciuto Felice Gimondi e il suo castigatore, il cannibalico Merckx, una sola sibilante spietata sillaba fiamminga; Fausto Coppi e Gino Bartali, per sempre accomunati da un iconico passaggio di borraccia e da una rivalità che spacco bonariamente l'Italia, il Paese i cui animi esasperati ed esacerbati il Ginettaccio seppe contribuire a calmare con una sua vittoria al Tour de France giunta nei giorni di un attentato a Palmiro Togliatti.
Dall'uomo andato sino ai bordi del cielo laddove l'ossigeno è particella rara e d'assoluto, alias Reinhold Messner, all'immenso per portata sociale, e non solo sportiva, Muhammad Ali; dal tragico e beffardo destino di Alberto Ascari ad Abebe Bikila, la gazzella degli acrocori abissini, uomo di scarne parole come la sua corsa nuda, a piedi scalzi, nella maratona olimpica di Roma, il più bel simbolo dell'africanità; dallo “spaventoso” salto di Bob Beamon nell'aria azteca di Città del Messico, 8,90 metri di balzo nel futuro, ai dioscuri Gianni Rivera e Sandrino Mazzola, anch'essi protagonisti (loro malgrado?) ai Mondiali di calcio messicani del 1970; dall'incredibile vicenda del coraggioso duecentista australiano Peter Norman – anch'egli, guarda caso, in Messico, cosi come il leggendario futebolista Rivelino dal sinistro proibito – alla potente levità, all'estetica intrisa di immane sforzo e fatica (o viceversa) dell'anellista Jury Chechi.
E ancora Livio Berruti, Adolfo Consolini, Pietro Mennea e Dorando Pietri, glorie dell'atletica italiana e mondiale – per quel che concerne il carpigiano la vicenda olimpica di Londra 1908 è estremamente affascinante e complessa... – e il ciondolante Emil Zátopek capace del mostruoso trittico d'oro a Helsinki 1952 nei 5.000 m, nei 10.000 m e nella maratona. Non poteva mancare il mio idolo d'infanzia, il Renato Cappellini da Soncino, attaccante nei ranghi della Grande Inter, in eccelsa compagnia; difatti fra i suoi colleghi compaiono Gianpiero Combi, Cruijff (o Cruyff), Benito Veleno Lorenzi, Valentino Mazzola, Peppino Meazza, il più grande di tutti, e Gigi Meroni, uno da fantasia al potere, stroncato a neanche venticinque anni da un disgraziato incidente in un corso torinese.
Di tutti questi ho tracciato un ritratto lirico-esistenziale, figlio (e padre) delle emozioni generatemi. Poesie che ho infine raccolto, grazie alla disponibilità dello splendido editore Gordiano Lupi, scioglitore di nodi, uomo oltremodo curioso e gran creatore di cultura. Nel tempo le poesie della presente antologia erano uscite o in svariate altre miscellanee o su riviste (telematiche e non solo) o in forma di plaquette.
Cito, in ordine sparso: Una curva nel cielo (Apollo e Dioniso), tellusfolio.it, La semina dei ricordi (Albalibri), i Quaderni dell'Arcimatto-Rivista di studi breriani (fuori onda), Biciclette di carta (Limina), El folber e altri destini (Gilgamesh), Il calcio è poesia (Il melangolo). Credo di non avere dimenticato alcuno e, per quanto sia rimasto il detentore dei diritti, mi scuso di eventuali non volute dimenticanze.
C'è, ça va sans dire, la mia amata pallacanestro e ci sono i prodi pugilatori Duilio Loi, Nino Benvenuti (con il suo contrario Sandro Mazzinghi da Pontedera) – Nino, triestino d'Isola d'Istria, bello come un attore, baciato dal destino, la cui nemesi sarebbe un giorno venuta dalla pampa argentina nelle forme e nel visus dell'implacabile Carlos Monzón – e Primo Carnera, il gigante dai piedi d'argilla e dal generoso cuore, in ogni caso un ottimo e coraggioso pugile: fu una splendida storia umana quella dell'uomo di Sequals.
Ribadisco la gratitudine all'autore della prefazione, l'immaginifico amico Darwin Pastorin, come da nome meraviglioso esploratore di storie, colto e sensibilissimo affabulatore, e all'editore piombinese che ha accettato l'idea della ripubblicazione completa, omogenea e organica, di queste trentatré poesie, corredate di schede in prosa, un patrimonio emozionale e di memoria (anche autobiografica), che ho sempre inteso divulgare e, soprattutto, condividere.
Ad Abebe Bikila (Bikila Abebe o Bichila Abbebe)
A piedi scalzi contro la fame, Abebe,
tu fendevi le luci straniere,
la notte della città che fu il mondo,
i volti che sbucavano da marmi e rovine
con spente grida e sguardi rapiti,
e il selciato si faceva polvere
sotto i tuoi piedi nudi
come schegge di acrocori
su cui il sole batteva senza pietà.
Correvi e correvi e nel cuore, Abebe,
vagavano i ricordi di una terra
vibrante e brillante come un fuoco
nel deserto; correvi e correvi,
cosi vicino alla fatica e alle visioni
di guerrieri dei leggendari regni neri.
Nei tuoi muscoli, in ogni fibra, Abebe,
il cielo entrava come spilli di dolore,
i pensieri come lance aguzze nella mente,
il sangue un pulsante fiume senza tempo.
Un passo dopo l'altro, Abebe,
come un antico cristiano
lungo le strade della fede e del martirio
o uno schiavo che fuggiva
dalla crocifissione nei labirinti della paura.
Nelle arene del sogno riposava, Abebe,
il ritmo dei tuoi piedi e il respiro lento,
sospeso, scorticato nell'attesa della fine,
per vincere lontano, troppo lontano
dall'Etiopia degli odorosi altipiani.
Sul dorso del buio, fra croci di neon, Abebe,
alla grave iscrizione della gloria,
all'arco dell'orizzonte: soltanto
la parola muta, dinamica
dei tuoi piedi scalzi contro la fame.
Etiope, un corridore da leggenda nei 42,195 km della maratona. Due volte campione olimpico: Roma 1960, in una memorabile maratona corsa tutta a piedi nudi nella sfavillante città della Dolce Vita, e Tokyo 1964, questa volta con le scarpette ai piedi.
Nel 1969 a causa di un incidente automobilistico rimase paralizzato agli arti inferiori.
Nessuno mai come lui, che seppe divenire il simbolo di un continente che con orgoglio reclamava libertà, pace, un posto nel mondo.
A Bob Beamon
Spazzasti l'aria residua quel giorno,
Bob, a Mexico City col tuo salto,
infinito volo, curva celeste
per sottrarti al grave peso del mondo.
Il cielo era piombo fuso e tequila
nelle tue vene insonni, pugni chiusi
e debiti, e prima ancora la tisi
materna, i coltelli nelle vie oscure,
la sabbia del Texas e l'amore naufrago.
A cosa pensavi in quel balzo effimero,
nel lungo e fisso alare delle gambe,
alto e lontano fino all'inconcepibile,
come mai alcun altro essere umano?
Perfetto come una retta a congiungere
ogni prima e ogni dopo... High School e Cadillac
rosa, televisori, specchi e spettri aztechi,
scarpe di lusso, basket, povertà
e l'abbraccio di Ralph Boston... Pioveva
come in un'antica danza di lacrime,
rito ancestrale: batter d'occhi e nubi
pari ai tamburi di New York, conati
e cesti di speranza, baci al dio
Quetzalcoatl, Vietnam e Angela Davis,
napalm, rock 'n' roll, blues, Martin Luther King...
E il vuoto... maledetto, interminabile,
lungo 8 metri e 90 centimetri
(o anche 29 piedi e 2 pollici)
nell'anima felice e devastata.
Ma ancora oggi, Bob, nel nostro pensiero
tu voli, plani e mai ti posi, mai ti posi...
Ha ormai compiuto 70 anni Robert Bob Beamon, nato a New York e divenuto campione olimpico nel salto in lungo a Città del Messico 1968 con un prodigioso, se non fantascientifico, balzo di 8,90 metri. Fu un volo lunghissimo e altissimo, epocale: una delle più grandi imprese sportive di tutti i tempi.
Bob dalla irrequieta e turbolenta infanzia: padre, diciamo cosi, “rivedibile”; madre morta giovanissima di tubercolosi; le strade violente del quartiere; i debiti e la povertà; il matrimonio a rotoli; la sospensione della borsa di studio dal College per via del rifiuto di partecipare a un meeting in cui erano presenti atleti di un'università considerata razzista; le paure, i tormenti e i dubbi esistenziali... Poi quel salto stellare, con la revisione, seppur per poco, del criterio della gravità.
Bob Beamon si era consegnato alla storia dello sport e all'immaginario collettivo. Un saltatore inglese disse che semplicemente con tale record – fu migliorato di 55 cm il precedente primato (praticamente polverizzato) – Beamon aveva distrutto quella disciplina sportiva.
Con il successo e la gloria giunsero anche i soldi. Che vennero sperperati. E furono nuove difficoltà di vita... Bob Beamon non riuscì mai più a ripetere quella misura e neanche ad avvicinarvisi. Ma la fama è con lui, per sempre.
Uomo di un tempo duro e pur colmo di giuste ribellioni e speranze (vedi la protesta guantata di nero sul podio dei 200 m in quelle stesse Olimpiadi di Tommie Smith e John Carlos nel nome della gente afroamericana), cui partecipò pagando di persona, e atleta meraviglioso (provvisto di una straordinaria elevazione, giocava benissimo anche a basket).
A Fausto e Gino
Chi fu a passare l’acqua all’altro,
quell’acqua di sale, sole e malaria,
invidia, successo e inimicizia,
il paese dell’anima spaccato anche quello?
Chi fu che gettò l’ombra sua
oltre l’altra, i muscoli
tesi allo spasimo, le ruote
ferme in uno scatto eterno?
Pensavi alla tua Dama, Fausto,
alle pedine bianche e nere del caso,
mentre i monti t’inghiottivano
con le strade abbacinate, allucinate,
o al fratello dal nome perduto,
alla sua presenza-assenza?
E tu, Gino, a che cosa pensavi
quel giorno dell’anno nuovo
nell’odore improvviso della morte
che ti aveva sottratto
l’antico avversario e compagno?
Fu lungo cammino insieme,
fu gloria o percorso breve,
come il profilo di un volo
d’aquila nel cielo
o il canto ultimo d’una sirena?
(Fausto Coppi, Castellania, 15 settembre 1919 - Tortona, 2 gennaio 1960 / Gino Bartali, Ponte a Ema, 18 luglio 1914 - Firenze, 5 maggio 2000)
Una rivalità epocale, di più... epica. Due campioni-simbolo, tanto diversi fra loro e inestricabilmente avvinti. Capaci di spezzare nettamente in due l'Italia della passione ciclistica, una disfida che nel dopoguerra accese animi e immaginari in un'Italia che si leccava ancora le ferite del secondo gran bagno di sangue mondiale, un Paese che voleva comunque, in gran fermento culturale e ludico-sportivo, riprendere a vivere. Bartali e Coppi, o Coppi e Bartali, scrissero indelebili, indimenticabili pagine.
Ginettaccio - Gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare conquistò il suo primo titolo italiano nel 1935, correndo sino al 1954, accumulando copiosissimi successi: due Tour de France (1938 e 1948), l'ultimo dei quali in concomitanza con l'attentato a Palmiro Togliatti, vittoria che contribuì a rasserenare l'anima di una nazione lacerata e pronta di nuovo ad ardere; tre Giri d'Italia (1936, 1937 e 1946); quattro Milano-Sanremo (1939, 1940, 1947 e 1950); tre Giri di Lombardia (1936, 1939 e 1940); due Giri di Svizzera (1946 e 1947); quattro titoli italiani; cinque Giri della Toscana; tre Giri del Piemonte; due Campionati di Zurigo; due Giri dell'Emilia; due Giri della Campania; la Coppa Bernocchi, il Giro di Romandia e il Giro dei Paesi Baschi. Vinse pure dodici tappe al Tour de France, indossando in venti occasioni la maglia gialla di leader della classifica generale, e diciassette tappe al Giro d'Italia, con una collezione di cinquanta giorni in maglia rosa.
Fausto Coppi, l'Airone o Fostò – come amavano chiamarlo i francesi –, un uomo solo al comando, uso a infliggere sovente abissali distacchi ai suoi compagni e rivali di corsa (ben 14' a chi invano lo inseguiva nella Milano-Sanremo 1946), dissimile alter ego di Gino, alla nascita pesava solo due chili.
Fra i suoi trionfi: due Tour de France (1949 e 1952); cinque Giri d'Italia (1940, 1947, 1949, 1952 e 1953); tre Milano-Sanremo (1946, 1948 e 1949); il titolo iridato nel 1953. Fu anche campione del mondo nell'inseguimento su pista. Nella sua straordinaria carriera stabilì anche il record dell'ora: 45,871 km, nel 1942. Fu il primo ciclista a vincere Giro d'Italia e Tour de France nello stesso anno.
Una vita piena e drammatica, la sua... Prigioniero di guerra. La tragedia della morte dell'amato fratello Serse, anche lui ciclista, deceduto per emorragia cerebrale in seguito a una caduta in occasione di un Giro del Piemonte. La storia extraconiugale con la famosa Dama bianca, al secolo Giulia Occhini, da cui ebbe un figlio (Angelo Fausto, fatto nascere a Buenos Aires). Giulia, denunciata per adulterio dal primo marito, passò anche qualche giorno in carcere; Fausto, a sua volta sposato, subi il ritiro del passaporto. Non era molto amato dai benpensanti Fausto Coppi. In un'Italia bacchettona e ipocrita anche a chi vinceva poteva non essere perdonato d'infrangere le regole di una morale corrente (e ampiamente vetusta). La stessa morte di Fausto e di altissima drammaticità. Fu una malaria non diagnosticata a spegnere la fibra del Campionissimo.
Per tornare al suo amico-nemico, è da dire che Gino, fervente iscritto all'Azione Cattolica, non si piegò mai alle ragioni propagandistiche del regime fascista. Se Mussolini tentò opportunisticamente di usarlo, fu sempre senza il beneplacito di Bartali, il quale anzi durante la guerra, quando si allenava, nascondeva, con gran rischio e pericolo, all'interno della bicicletta documenti e lasciapassare falsi per ebrei da salvare dalla persecuzione nazista. Perciò è stato dichiarato dallo Yad Vashem, il memoriale ufficiale israeliano delle vittime dell'Olocausto, Giusto tra le nazioni.
Alberto Figliolia. Cieli di Gloria. Poesie sportive
EIF, 2017, pp. 110, € 12,00