Alcuni glossari indicano la parola cubaneo come azione descrittiva del comportamento festoso del cubano, altri testi di riferimento la convalidano come etichetta perfetta per descrivere l’idiosincrasia o l’attitudine nazionale e creola delle persone nate a Cuba.
Nell’oscillazione sonora e figurativa della parola ci sfugge il positivo, il bello o edificante della nostra identità, perché oggi nelle sue sette lettere coesiste un pericoloso sintomo che menzioniamo con riserva.
A Miami, davanti a un enorme piatto di Moros y Cristianos, una amica cubana come me, della mia stessa generazione che stava uscendo da un lungo, doloroso divorzio, mi ha spiegato tra i singhiozzi: “Il mio matrimonio è stato rovinato dal cubaneo”.
A Parigi, passeggiando per le meravigliose strade di Montparnasse, ho sentito dire al mio migliore amico e collega che vive lì da 20 anni: “Se vivo a Parigi, tra le altre ragioni, è per liberarmi del cubaneo, ma anche in Francia cara mia, se non stai attento, il cubaneo ti ghermisce”.
A cena in un ristorante di Barcellona, chiacchierando animatamente con una coppia di attori cubani, ho avuto un ragguaglio dei loro progressi sulla scena spagnola. Dopo dieci lunghi anni di studio e pratica del catalano oggi loro sono pronti per recitare le loro battute in quest’altra lingua ed entrare così in un universo teatrale ben diverso dal nostro. A Cuba non hanno avuto abbastanza opportunità, al contrario, si sono sentiti assediati dal terribile sintomo che rovina e contamina tutto nelle nostre vite: il cubaneo.
Poche volte ho sentito usare il termine cubaneo con una sfumatura positiva. Il tono della voce che serve a pronunciarlo fa male, ferisce, infastidisce e addirittura offende. Il fatto curioso è che questa epidemia, questo virus che inocula diverse malattie non è mai nella pelle di chi lo nomina ed è in genere diagnosticato da qualcuno che crede o è convinto di non averlo né di averlo mai avuto.
Nei social network in cui si collegano, si aggregano o riuniscono migliaia, milioni di utenti dispersi per il mondo si scoprono intensi dibattiti che finiscono sempre con la stessa frase:
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Me ne vado perché non sopporto il cubaneo.
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Escludetemi una volta per tutte da questa questione sgradevole, io non centro niente con il cubaneo.
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Chiudo la mia pagina, perché se me ne sono andato da Cuba è stato proprio per evitare il cubaneo.
Noi che viviamo a Cuba non parliamo di “cubaneo”, perché l’isola è in se stessa un paradigma che ingloba il concetto proiettato tanto nella sua politica domestica quanto di Stato. Ne affrontiamo le conseguenze con la naturalezza con cui subiamo l’irruzione del mare, il calore, i cicloni, le malattie tropicali o le zanzare. È già parte essenziale della nostra cultura, della nostra geografia o del clima ed è in forte relazione, nelle sue radici, con l’asfissia limitrofa della nostra condizione insulare. In qualche modo il verbo cubanear non specifica mai dove questo comportamento venga assunto di più, poiché fino a oggi nessuno ha attestato in quale luogo i nativi sostengano con più forza questa azione e pertanto nessuno di noi sa dove si cubanea di più, se in esilio o nel non-esilio.
Sinceramente, dubito che esista un cubano sulla terra che non sia stato vittima dei suoi sintomi o delle sue conseguenze, seppur si tratti solo di stati transitori, lievi attacchi di cubaneo, febbrili quadri reversibili che solo alcuni potenti anticorpi umani riescono a sterilizzare
Questa condizione – di focolaio permanente – coesiste distillando il suo aroma nella nostra pelle, la si è vista impiantata nella sella turcica di alcuni pazienti e nella pianta dei piedi di coloro che passano lasciando le loro impronte maligne dove mettono piede.
Le chiacchiere, le difficoltà, l’apatia, l’esaltazione politica, le soffiate, i rancori passati, l’invidia, la povertà di spirito, la menzogna, la calunnia e l’inconsistenza del pensiero sono i sintomi più frequenti che danneggiano tanto il corpo civico e psichico del malato quanto il sistema nervoso o l’ambiente intimo, sociale e umano dell’individuo sano. Chi risulta essere bersaglio della furia dell’infetto può contrarre il virus o provare a rimanere forte tentando di non essere colpito dalla terribile epidemia. Solo la sua intelligenza, la sua educazione sentimentale, il senso comune e la forza di volontà lo aiuteranno a non essere contagiato.
Sinceramente, dubito che esista un cubano sulla terra che non sia stato vittima dei suoi sintomi o delle sue conseguenze, seppur si tratti solo di stati transitori, lievi attacchi di cubaneo, febbrili quadri reversibili che solo alcuni potenti anticorpi umani riescono a sterilizzare.
Questa sintomatologia può anche essere genetica perché conosco figli e nipoti di cubani che non hanno mai messo piede sull’isola, ma che soffrono di questa patologia endemica.
C’è un’altra forma di contagio – minima – ma non per questo meno importante: trasmissione per convivenza o per rapporti coniugali, perché ci sono stati casi di coniugi di nazionalità diverse infettati a vita, perfino dopo il matrimonio.
Il cubaneo concentra il superlativo del cubano, il meglio lavora duramente per sopravvivere al peggio della nostra identità nazionale, è un sintomo che quasi sempre si addensa nelle profonde onde dell’eterogeneo “Ajiaco” costitutivo, lo stesso descritto così bene dall’etnologo cubano Fernando Ortiz.
Wendy Guerra
(da el Nuevo Herlad, 13 ottobre 2017)
Traduzione di Silvia Bertoli