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Gianfranco Cercone. “120 battiti al minuto” di Robin Campillo
15 Ottobre 2017
 

Un difetto ricorrente del cinema politico è la retorica, e in particolare la descrizione un po' monumentale, o agiografica, insomma: aprioristicamente positiva, di coloro che si battono per una causa ritenuta giusta dall'autore del film.

Questo difetto lo si riscontra, a mio parere, anche in un film, peraltro molto ben fatto e di nobili ideali, come 120 battiti al minuto diretto da Robin Campillo, vincitore del Gran Premio della Giuria al festival di Cannes.

Il racconto prende in esame soprattutto le riunioni in assemblea e le azioni di protesta, condotte dall'associazione francese Act Up, che, negli anni Novanta, quando l'epidemia di AIDS infuriava in Francia, mietendo vittime in particolare tra le persone omosessuali, si batteva per esplicite campagne di informazione e di prevenzione, così come per accelerare la sperimentazione di farmaci in grado di arginare l'infezione, che aveva allora esiti quasi sempre mortali. Per le persone malate o infette che erano tra i suoi militanti, costituiva anche una rete di solidarietà e di assistenza.

Il film riferisce che l'associazione si definiva: non-violenta. Va detto, però, che alcune azioni eseguite dai militanti (come, ad esempio, gettare litri di sangue finto sui relatori di un convegno o sugli impiegati di una casa farmaceutica – liquido, da chi ne era imbrattato, poteva essere ritenuto in un primo tempo sangue infetto) – azioni che si spiegano con l'esasperazione di chi vedeva incalzare l'epidemia, o progredire la malattia dentro di sé – nonviolente certo non sono, perché non è nonviolento lo spirito che le anima, dato che l'intento che è sporcare, sfregiare, o terrorizzare, anche solo per qualche momento, gli interlocutori, gli avversari politici.

Nel film questo genere di azioni sono tema di discussione in assemblea. Incontrano le perplessità dei più moderati, ma prevalgono su di loro i più oltranzisti.

E se l'autore sembra registrare obiettivamente il dibattito, è chiara la sua simpatia per le azioni sicuramente non cruente ma più aggressive del gruppo, come quella che conclude il film: spargere le ceneri di un ragazzo morto per AIDS durante il rinfresco di una società di assicurazioni, accusata evidentemente di speculare sulla malattia, senza però che la sostanza delle accuse sia chiarita allo spettatore.

Ma non è evidentemente il contenuto politico, che può incontrare legittimi consensi o riserve, che fa la riuscita o meno di un film.

Però, ciò che dà un tono di propaganda al racconto è che tutti i militanti di Act Up appaiono, in sostanza, giusti, simpatici, coraggiosi, estrosi, vitali anche quando sono agli ultimi stadi della malattia. E che tutti, malgrado qualche dissenso, qualche litigio di superficie, sembrano volersi in fondo un gran bene.

Così, quando il racconto entra nelle vicende private dei personaggi, e in particolare nella storia d'amore tra due di loro, cade a volte nel sentimentalismo; e, al cospetto della morte, diventa melodrammatico.

Va detto però che tutti gli attori sono bravissimi, e che il film è scritto e diretto abilmente, un po' alla maniera del cinema-verità.

È il film che la Francia ha scelto per concorrere all'Oscar per il miglior film straniero.

Malgrado ogni riserva, è un film interessante.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 14 ottobre 2017
»» QUI la scheda audio)


 
 
 
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