Di cose da dire su quanto accade da giorni in Spagna ce ne sarebbero un'infinità - quasi nessuna positiva purtroppo - per ridurle ai minimi termini diciamo che non possiamo non soffermarci sugli aspetti più squisitamente politici.
Occorre separare nettamente i problemi del “nazionalismo” da quelli del “sovranismo”. I primi sono di origine psicologico-culturale e identitari, i secondi figli di un sistema politico e istituzionale consolidato e condiviso da tutto il mondo. Entrambi però non fanno i conti con l'evoluzione del diritto internazionale.
Se il “nazionalismo” è un sentimento politico conservatore di un'identità che si ritiene a rischio di contaminazione o erosione (sociale, culturale, linguistica, etnica fino a interessare l'economia) o che si vuole affermare perché superiore alle altre e che interessa una minoranza di soggetti politici organizzati o ideologici, (oltre che al chiacchiericcio “social”), il “sovranismo”, o meglio l'insistere nel ritenere la “sovranità assoluta di uno Stato” un principio irrinunciabile per potersi sentire auto-determinati in quanto popolo, cioè padroni, e forse anche al sicuro, a casa propria, è un sistema politico-istituzionale che caratterizza tutti gli Stati Membri delle Nazioni unite (e forse anche chi dell'Onu non ne fa parte come Taiwan o il Kosovo).
Il secolo scorso avrebbe però dovuto insegnarci che la difesa della sovranità degli Stati è causa di, e non soluzione a, conflitti, e che quanto più si promuove l'identità nazionale quanto più questi conflitti sfociano in devastanti confronti armati.
Precursori di una visione che spostasse l'attenzione politica e istituzionale sull'individuo e i suoi diritti personali furono Ernesto Rossi, Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni - tre intellettuali anti-fascisti confinati a Ventotene negli anni '30 e '40 - che contro il nazionalismo anti-democratico italiano proponevano il federalismo europeo come risposta di giustizia e libertà.
Dopo (e malgrado) Yalta, il mondo libero e il blocco sovietico riuscirono a trovare momenti di confronto che hanno consentito l'elaborazione dei cosiddetti “strumenti internazionali dei diritti umani” dove la riflessione teorica e la codificazione di principi universali non ha interessato la cosiddetta auto-determinazione dei popoli ma le libertà personali.
Per quanto i diritti siano (quasi) equamente distribuiti tra individuali e collettivi, le (presunte) volontà, tradizioni e culture di un popolo non possono dar diritto di supremazia o discriminazione negativa nei confronti di sottogruppi di quello stesso "popolo" (per esempio contro le donne, i disabili, le persone omosessuali) né delle persone che vivono assieme a quel "popolo" in un determinato territorio (emigrati, migranti, rifugiati, turisti).
Nel caso in cui un “popolo” (in maggioranza o minoranza) sia oggetto di persecuzioni sistematiche, fino all'annientamento, in un determinato Stato, il diritto internazionale non esclude che in quelle circostanze, ma solo in quelle (e comunque non sempre), quel “popolo” possa ricorrere all'uso della forza per difendersi dalle aggressioni e quindi, come tutela per il “proprio” futuro, arrivare a pretendere di potersi separare formalmente da chi lo aggredisce infrangendo i principi dell'integrità territoriale e della sovranità nazionale.
Si può arrivare a sostenere che tanto il nazionalismo quanto il sovranismo coprano spessissimo interessi esclusivamente economici (il famoso “interesse nazionale”) ma se anche questa pretesa di sovranità (che interessa altre questioni dalla moneta al cibo!) dovesse esser un genuino retaggio del passato problematico di un “popolo”, battersi per una “bandiera” non significa affrontare i problemi dei cittadini che sotto quel vessillo vivono.
I catalani in Catalogna non arrivano a essere la metà dei residenti (o domiciliati) in quella regione; ma se anche così non fosse, i partiti e i movimenti indipendentisti negli ultimi anni non hanno ottenuto la maggioranza dei seggi a livello regionale né a Barcellona.
Quindi perché una regione ricca, particolarmente cosmopolita e tradizionalmente ospitale come la Catalogna vuole affermare così potentemente la propria identità? Possibile che non si arrivi a convincersi che l'apertura, l'accoglienza e la solidarietà siano parte integrante della cultura e tradizione, se non identità, catalane? Cosa impedisce a un catalano di esser catalano nella Catalogna spagnola? O a una catalana di godere dei suoi diritti? Come verrebbe trattato un non catalano nella Catalogna indipendente? Gli ex coloni sarebbero cacciati? Verrebbero chiesti loro i danni dell'occupazione?
La Costituzione spagnola, come tutte le costituzioni del mondo, non prevede che si possa intervenire in alcun modo per consentire il “diritto all'autodeterminazione dei popoli” limitando la sovranità dello Stato o correggendone l'integrità territoriale. Ogni azione, anche “non-violenta”, contraria a questi due principi è da trattarsi come un attacco allo Stato che, se protratto e con potenziali ripercussioni sovversive, giustifica l'uso della forza.
La Spagna fa però parte di un'entità politica regionale che si chiama Unione europea che, seppure fondata mantenendo intatto il criterio di sovranità nazionale, lo ha progressivamente fatto evolvere nell'interesse della pacifica convivenza, sicurezza sociale e prosperità di chi in quella parte del mondo vive. Questa appartenenza avviene sulla base del riconoscimento di principi e norme chiare che se violate implicano sanzioni.
Se l'uso della forza da parte delle istituzioni di uno Stato membro dell'Ue per l'affermazione della propria legalità costituzionale non rientra nelle competenze europee, la sproporzione dell'uso della forza da parte di uno Stato nei confronti dei propri cittadini è oggetto di norme di diritto internazionale. La forza deve esser praticata in modo adeguatamente proporzionato alle circostanze. In Catalogna questo non è avvento.
Sappiamo che la Spagna ha una delle legislazioni d'emergenza e anti-terrorismo tra le più dure d'Europa – leggi e politiche sistematicamente applicate negli anni per via degli attentati baschi – ma un conto è rispondere a devastanti attentati dinamitardi o omicidi mirati, un altro è ritenere bambini, donne e anziani che esercitano il diritto di riunirsi in assemblea delle settecentesche adunate sedizione!
All'inizio dell'estate avevo avuto modo di incontrare un rappresentante della Catalogna in Italia e gli avevo chiesto se fossero stati pronti a vedere l'esercito schierato nelle piazze. Mi parve di capire che fossero pronti anche al peggiore degli scenari - forse parlava così perché il tutto restava all'interno dell'Unione europea...
Non dubito che in questi giorni drammatici i catalani sapranno comunque trarre linfa vitale per rafforzarsi nelle proprie orgogliose convinzioni privilegiando il buon senso della politica. Le pacifiche manifestazioni di piazza prima, durante e dopo il voto confermano che in quella parte del mondo son stati fatti passi da gigante in termini di convivenza civile e partecipazione civica dalla fine della dittatura grazie all'avvento della democrazia politica.
Allo stesso tempo chi, nel pieno delle ragioni in punto di diritto, per affermare la sovranità nazionale contro spinte nazionaliste, manda l'esercito viola i propri obblighi internazionali oltre che i principi fondativi dell'Unione europea. In passato "per molto meno" si è preteso lo scalpo di Haider e si son denunciate le scelte di Orban...
Quali insegnamenti trarre quindi da quanto accade in Catalogna?
Tanti, ma tre mi paiono fondamentali:
1) che l'affermazione dell'identità nazionale non garantisce di per sé libertà, giustizia, pace e prosperità;
2) che la difesa della sovranità nazionale implica l'uso prepotente e sproporzionato della forza;
3) che l'Unione europea sta giocando la propria credibilità di fronte a un empasse frutto di approcci e convinzioni contro cui l'Ue fu fondata e per la cui promozione e protezione ha vinto un premio Nobel per la pace.
Non fare tesoro delle drammatiche esperienza del passato continuerà a promettere male per il futuro.
Marco Perduca
(dal suo Blog su Huffington Post, 3 ottobre 2017)