La violenza contro le donne, indice di grettezza mentale, frutto di un pregiudizio endemico, mina le fondamenta della nostra società, che ama definirsi in progress.
Le donne sono ancora vittime di una cultura arcaica che le espone a ogni sorta di violenza. Nata da una costola di Adamo, la donna è considerata subalterna all’uomo. Ha forse un’anima? È forse uno dei pilastri della società? Con tutti i mezzi è stata demolita la sua immagine, dimenticando che fu il grembo di una giovane donna ad accogliere il Redentore.
Come definire la violenza contro le donne? Gelosia, vanità, presunzione, intolleranza, timore, idea di possesso? La violenza è un regresso sociale.
L’educazione un tempo si basava sulla netta distinzione tra maschi e femmine e a scuola si insegnavano le attività domestiche separando così ruoli e funzioni. Nel tempo questa forma di educazione è cambiata e la donna è riuscita ad accedere allo studio, a ottenere il diritto di voto, a raggiungere ruoli sociali importanti, ma il pregiudizio permane. Nel lavoro, è sempre la donna ad essere licenziata per prima ed è sempre lei a percepire compensi più bassi. Se guardiamo indietro, poco è cambiato nella sua considerazione. In passato, la donna è stata definita: tentatrice, demonio, strega e quant’altro di negativo si possa immaginare, senza tener conto del matriarcato. La donna, nelle società antiche, è stata considerata sottomessa all’uomo ed è prevalsa l’immagine della donna-Penelope, simbolo di fedeltà, di onestà, di moglie, di madre e di angelo del focolare, termine che appagava il gusto maschile di segregazione, di controllo e di comodo. La donna ha lottato con coraggio anche a costo della vita, pur di liberarsi di questo cliché, ma è stata sempre e in varie forme esclusa. La donna sposata passava dal dominio paterno all’arbitrio del marito ed era esposta senza difesa a ogni sorta di violenza. Erano sempre gli altri a decidere della sua sorte e in caso di trasgressione era punita con la morte. Dante ce ne offre alcuni esempi e altri se ne traggono dall’antichità come Hipazia d’Alessandria, filosofa e scienziata del IV-V secolo d.C., fatta a pezzi da uomini fanatici, forse monaci detti “paraboloni”, offesi e umiliati dalla sua cultura e dal potere che esercitava sulle folle, sperando di riscattare nell’orrore il proprio onore o in tempi recenti il caso della giovanissima Malala Yousufzai, l’attivista pakistana gravemente ferita alla testa e al collo dai Talebani per il suo impegno a promuovere l’istruzione femminile nel proprio Paese.
Questa condizione ci induce a riflettere sul concetto di società evoluta per cui una società non può definirsi tale se non tratta tutti i suoi membri in modo paritario e se rende le donne ancora vittime.
Le peggiori violenze sono quelle che si consumano tra le mura domestiche. Molte sono le iniziative messe in atto a favore delle donne. Le leggi e i centri di assistenza aiutano e invogliano le donne a denunciare gli aggressori, a superare la paura della ritorsione ma la diffidenza permane; è ancora limitato il numero delle donne che denunciano.
L’uso della violenza in tutte le sfere sociali è un sistema di difesa, di potere e di controllo. La violenza sia fisica che psicologica e verbale tende a intimorire, a sottomettere, ad annientare, a indebolire la mente e la volontà della donna fino a toglierle la possibilità di avere opinioni, emozioni o reazioni.
Non è facile mutare il volto della società ma il problema, segno di un degrado che si acuisce, chiama in causa tutta la comunità. Il numero di donne violentate e uccise è in aumento e se si pensa a quelle che vivono in silenzio il proprio dramma, ci si rende conto della gravità del problema che pertanto sollecita un impegno comune.
La donna ha bisogno di recuperare, all’interno della società, la stima verso sé stessa e l’orgoglio di essere donna ma in questa battaglia, non deve essere lasciata sola.
Si richiede un impegno politico vigile e forte che applichi le leggi in tempi celeri in tutte le circostanze. Ma la violenza è essenzialmente un fatto culturale per cui contro la violenza molto possono la famiglia e l’educazione. È in famiglia che si consumano le peggiori violenze di cui i figli sono testimoni. I bambini seguono i modelli con i quali convivono e ne ripetono i gesti: i maschi con la violenza iterata, le femmine subendola. La violenza genera violenza ed è questo l’aspetto più raccapricciante del problema. Sono sempre gli adulti a ledere i canoni dell’educazione offrendo di sé un’immagine negativa. Il problema riguarda tutti i ceti sociali, a dimostrazione di quanto la violenza sia insita nel vivere quotidiano. Lo strumento più efficace contro ogni forma di violenza è l’“educazione” affinché il “rispetto” e la “dignità” verso sé stessi e verso gli altri, diventino cardini del vivere civile.
L’informazione è la base dell’educazione, il mezzo più idoneo per conoscere e abbattere il pregiudizio. Solo l’istruzione, con qualsiasi mezzo si impartisca, può aprire le menti alla riflessione e abbattere l’oscurità che ci sovrasta. È tra i banchi di scuola che si diffonde il sapere, si educa, ci si educa e si legittimano principi e regole. I soldi investiti in cultura sono i più fruttuosi perché solo una corretta formazione può porre le basi di una società civile.
A scuola bisogna affrontare il problema della violenza in generale, comunque si manifesti, ma essenzialmente quella contro le donne che è un oltraggio all’umanità, un crimine che ci riporta allo stato ferino. È con gli studenti che bisogna parlare di questo male sociale fin da piccoli attraverso il dialogo, la comunicazione, l’ascolto, la creatività, il gioco ma essenzialmente attraverso la conoscenza di donne che hanno segnato pagine importanti della nostra storia. Non è facile scardinare i pregiudizi ma si può attraverso un insegnamento che, in tutte le discipline curriculari e non, associ alle figure maschili quelle femminili. Manca nella scuola una cultura al femminile, un’adeguata conoscenza della donna e del suo intercalarsi nella storia. Sono pochissimi, nei percorsi didattici, i nomi di donne che hanno operato nei vari campi dello scibile e che sono morte per una causa, un’ideologia o per il proprio pensiero. Solo il processo di formazione, coadiuvato dai mezzi di comunicazione e dalle immagini che ci funestano, può garantire una cultura che rifiuti la violenza come barbarie sociale.
La società deve, per dovere e responsabilità, riflettere sullo stato presente e capire che solo se riprende il controllo delle proprie azioni in ogni ambito e solo se offre in ogni campo della vita associativa esempi di integrità e di rettitudine, potrà sperare in un mondo diverso, dove il “rispetto” e la “dignità” verso sé stessi e gli altri diventino gli strumenti più efficaci contro ogni forma di violenza per una società in grado di recuperare i suoi valori.
Anna Lanzetta