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Virgilio Piñera. Tra il freddo e il caldo (1959)
28 Settembre 2017
 

Bene, sono qui… Siccome non ho nessuno che mi presenti, lo farò io stesso. Mi chiamo Rafael Sánchez Trevejo (Rafa per Rosita – la mia donna –, la famiglia e gli amici). E ora che mi ricordo… Mi pare che fosse il 1930 quando Rosita si innamorò del Miami. E si lamentava: “Questo Rafa… Non trova mai il tempo di portarmi a mangiare al Miami”. Lo diceva perché una volta ci andammo e incontrò Monona (la donna di Mencheca, il senatore di Oriente). Ragazza mia, era un secolo che non ci vedevamo! Rosita, ti vedo e non ci credo! Ma come ti trovo bene! Vecchia mia, per te gli anni non passano! Questa Monona sempre così adulatrice! Macché, ragazza mia, non sono più la Rosita di prima! Guarda, Rafa, questa è Monona, non ti ricordi?

Rosita voleva che la portassi al Miami con la speranza di fare un altro incontro casuale con Monona e, soprattutto, per i gelati. Mi diceva: “Rafa, non c’è niente come il chiffon al caramello del Miami…”.

Rosita (che ora vive a New York, con nostra figlia Caruca e con Pepín, mio genero) mi scrive lettere di fuoco. Se ne sono andati da circa un anno. Non volevo parlare di questo prima del resto (il rsto è il mio passato), ma ho la virtù, o il difetto, di dire quello che mi passa per la testa. Dunque Rosita, visto che non le davo il permesso come marito (in attesa che glielo desse il Governo) mise sul tavolo, come ultimo argomento per far valere i suoi motivi da prossima esiliata che, magari, sull’altra sponda si sarebbe incontrata con Monona…

Rosita mi catturò per amore, io la catturai per interesse. Da tempo si era convinta che non l’avevo mai amata come avrebbe desiderato, con un amore da Romeo e Giulietta, senza che, ovviamente, Shakespeare entrasse nei suoi pensieri. Per lei Romeo e Giulietta era soltanto una marca di sigari.

Io sono di Bayamo, il nonno mi mandò a Santiago per compiere gli studi liceali. Questo accadde nel sedici, quando Menocal era in gran spolvero, ma il nonno aveva molta confidenza con il generale, perché combatté insieme a lui la battaglia de Las Guásimas. Quando il Comandante passò da Bayamo andò a trovare il nonno e gli disse: “Lázaro, dimmi quel che vuoi…”. Il nonno gli rispose: “Una borsa di studio perché Rafaelito possa frequentare il liceo a Santiago”.

Conobbi Rosita in casa di donna Pancha, un’amica della nonna e della mammina, tra le migliori di Santiago, che organizzava serate e cose simili…. Il sabato, che era giorno di ricevimento, facevamo il gioco di toglierci i vestiti e ogni volta che iniziavamo, donna Pancha ripeteva. “In questa stessa sala ho giocato a togliermi i vestiti quando avevo quindici anni. Ah, che tempi…!”. Dopo si dilungava in considerazioni sull’alta moralità di quel gioco. Poveretta! Si era dimenticata di tutte le eccitazioni e dei contatti fisici.

Non mi resta altro rimedio che dirvelo: Rosita era brutta da morire. Unica eccezione in quell’insieme di bruttezze: un paio di gambe superbe, e anche se, come si dice oggi, questa cosa può stuzzicare la fantasia, a me non capitava. Che cavolo! Le belle gambe mi dicono qualcosa se il resto è ugualmente buono. Certo, esiste gente di ogni tipo. Lo dico, perché adesso mi ricordo di un vecchio che andava al teatro Shangai e sedeva in prima fila per guardare le gambe delle ballerine. “È la sola cosa che può fare”, diceva Chico, il mio segretario.

In ogni caso, sebbene fosse brutta, mi sposai con Rosita. Durante il fidanzamento, mi confessò che era uscita di testa quando mi aveva sentito recitare La bambina del Guatemala. Mi diceva: “Pure io ero folle d’amore, ma ti ho catturato”. E la poveretta non si rendeva conto che pure io l’avevo catturata.

Ma la cattura non avvenne proprio in quelle serate. Io terminai il liceo come potei, cioè con molte insufficienze, molte copiature e molte raccomandazioni alla commissione esaminatrice perché mi facesse le domande su cose che conoscevo. Bene, in ogni caso sono riuscito a finirlo, ma siccome non volevo diventare universitario, lo dissi al nonno e al tempo stesso gli chiesi che mi inserisse nel commercio. Si mise a gridare come un matto. Voleva che diventassi avvocato; anche lui lo era e aveva avuto persino la fortuna di conoscere Castelar a Madrid; a me sarebbe potuto capitare la stessa cosa con un altro Castelar… Ma ne approfittai per tagliare il cordone ombelicale con il nonno, che detto per inciso non era così feroce come lo dipingevano.

Quando vide che ero deciso mi dette questo consiglio: “Rafa, visto che vuoi inserirti nel commercio, compra a buon mercato e vendi a caro prezzo. Pratica sempre il sano principio della rapina”. Finsi di ascoltarlo con somma attenzione; non mi stava dicendo niente di nuovo: quello era l’abc di ogni commerciante. Suo nipote sapeva un poco più di questo. Se si fosse reso conto che prestavo denaro a strozzo sarebbe caduto morto stecchito.

Il giorno che arrivai a Bayamo con il mio diploma, zia Lola, zitellona e maestra in pensione, che viveva insieme a noi e che mi adorava, di ritorno dal cimitero mi portò nella sua stanza, mi mise, in gran segreto, cento pesos in mano, e mi disse: “Rafa, sono per te”. E ora che mi ricordo andammo al cimitero per dire al mio paparino che suo figlio si era già diplomato. Papà morì prima che io nascessi, e una delle prime parole strane che appresi fu postumo, che il nonno si prese la briga di spiegarmi con ricchezza di dettagli quando ancora non avevo dieci anni.

Zia Lola, visto che passavano i giorni e io non spendevo il denaro, mi disse: “Ascolta, Rafa, oggi sono passata da El Cañon Alemán e ho visto un vestitino di gabardine inglese che è una bellezza. (Subito dopo aggiunse che il vestitino sarebbe stato eterno.) Tuo nonno vuole vederti a Madrid nella stessa Tribuna di Castelar, e un buon vestito apre tutte le porte”.

Quando le dissi che avevo deciso di cambiare l’oratoria con il commercio, per poco non le prese un colpo. Decotto di gelsomino a cinque foglie, acqua di colonia sulle tempie e carezze, oltre a prometterle milioni futuri, promessa che, in ultima istanza, la rianimò visto che il suo cavallo di battaglia era quello di fondare un asilo a Bayamo per signorine pentite. Tutto ciò doveva averlo letto nei romanzi di Palacio Valdés; che io sappia, a Bayamo non potevamo contare su quel tipo di signorine…

Naturalmente, non presi mai in considerazione l’idea di comprare il vestito bianco; piuttosto, prestai i cento pesos a strozzo: dopo sei mesi erano raddoppiati. Ma terminai l’attività perché il nonno se ne rese conto, e anche se non gli prese una sincope soffrì un principio di embolia. Ci fu un’agitazione generale seguita da grandi rimproveri da parte di zia e mammina.

Tutto questo lo sentii come chi sente piovere. Ma non mi scoraggiai. Avrei messo il corpo sull’altro lato. Se il mio destino era trionfare nella vita, avrei trionfato con strozzinaggio o senza. E, naturalmente, trionfai, e in che misura! Ma alla fine persi tutto. Una mattina ci alzammo e ci rendemmo conto che l’uomo era Fidel.

Volete che vi confessi una cosa? Nonostante la mia proverbiale verve l’uomo non mi sembrò sospetto. Per me, lui era proprio come gli altri, anche se pensavo che non sarebbe mai stato tanto brigante, ma credevo che in fin dei conti avrebbe lasciato correre le cose come sempre. Il mio modo di pensare provocò un’accesa discussione tra me e Rosita. Per una volta nella vita non si sbagliò. Mi disse: “Ascolta, questo è comunismo”.

Da dove tirava fuori una simile idea? Mi misi a gridare come un pazzo, le dissi che le donne vedono sempre fantasmi, che lei non sapeva un accidente di politica, che restasse nel suo mondo, in una parola, che la piantasse di dire sciocchezze. E se le dissi la cosa delle sciocchezze è perché, piangendo, mi supplicò di mandare il denaro negli Stati Uniti; che lei avrebbe fatto la stessa cosa con i suoi vestiti, che non avrebbe permesso che i comunisti si appropriassero di tutto.

Tu non parli sul serio – le dissi.

Credi quel che vuoi; domani stesso li tolgo dall’armadio. So con certezza che questo è comunismo.

Che comunismo e comunismo! – gridai – Fidel e tutti gli altri sono cattolici. Non hai visto che portano rosari e croci?

Non mi dire! Cerca di capire… è soltanto una facciata.

Vieni qui, Rosita. Devi essere ragionevole. Non ti mettere a vedere fantasmi dove non ce ne sono. Fidel non combatterà mai contro gli americani.

Non so se finirà per combattere oppure no, ma questo è comunismo.

E continuò nei suoi piani. Naturalmente, tirò fuori i vestiti; per impedirglielo avrei dovuto metterle contro una squadrone, inoltre, pensavo tutto questo non è altro che un attacco isterico; quando le sarà passato, i vestiti torneranno a prendere di nuovo il loro posto nell’armadio del Chase.

E adesso che parlo di vestiti… La prima cosa che mi comprai fu un orologio marca Hamilton, di quelli che al tempo venivano chiamati ruote di carro. Non dovrò specificare che sia l’orologio che la catenella erano d’oro massiccio. Mi costò centocinquanta pesos.

Questo accadde l’anno che entrai nel commercio. Divenni barattiere. L’idea me la dette Charles, un siriano allampanato che pronunciava le parole con la erre blesa. Due volte al mese usciva da Bayamo e vagava per i dintorni portando con sé un’enorme valigia, grande come una casa, dove metteva ogni specie di mercanzia. Mentre attendeva il treno, gridava per la gioia di grandi e piccini: “A buon mevcato, a buon mevcato!”.

Quindi seguii i suoi passi, ma con una differenza: mentre, come ho detto, Charles vendeva cianfrusaglie di ogni tipo, io mi dedicai a un solo articolo. Dopo il mio primo viaggio nella zona di Bueycito, dove mi caricarono con una montagna di articoli (dagli spazzolini da denti fino alle fisarmoniche), compresi che i miei guadagni non sarebbero mai andati oltre a quel che mi serviva per mangiare. Il mio problema era trovare un articolo che piacesse a tutti e che garantisse un buon guadagno.

Ma quale? Il mio sogno dorato era vendere una di quelle cose rare che tutti si accapigliano per comprale. E più ero disorientato, più la mia testa era in ebollizione pensando: “Questo no, perché lo conoscono, e questo forse, perché farebbero follie per prenderlo”; nel momento in cui, con due valigie aperte, circondato da una nuvola di negretti, con tre contadine che per ogni cosa dicevano comare, mentre prendevano, chi un fermaglio, chi un paio di giarrettiere, quando stavo scervellandomi pensando alla sensazione che non avevo ancora scoperto, una delle comari, dopo aver rovistato fino in fondo alla più grande delle valigie, mi chiese:

Compagno, non ha tessuto di raso?

Era una cosa che mi avevano chiesto in precedenti occasioni, ma sia perché non avevo prestato grande attenzione, sia perché il proposito di dedicarmi a un solo articolo ancora non occupava la mia mente, sino a quel momento il tessuto di raso era passato per i miei orecchi, senza incantarmi con il suo dolce suono.

Ma ora, seduto su quello sgabello, con una gallina situata all’altezza dei miei occhi, gallina che sembrava ipnotizzata mentre seguiva le volute formate dal fumo del mio sigaro; in quel momento, dico, con le valigie aperte ai miei piedi, con il vociare dei ragazzi, con le grida delle comari: “Forza, sciogli quella fisarmonica! Accontentati, bimba, starai tranquilla, porta qua quel pezzo di stoffa!...”, la richiesta della contadina mi lasciò di stucco.

Tessuto di raso! Era quello che la zia regalava a Caridá per il suo compleanno. Un pezzo di tessuto di raso! Avevo trovato l’articolo sensazionale. Quella notte andai al ballo che davano allo zuccherificio Mabay. Il novanta per cento delle contadine portava un vestito fatto di quella tela sfavillante. Erano infilate in una specie di sacco scintillante e sembravano lastre di zinco messe al sole.

Un sarto francese si sarebbe spaventato; invece, in quel momento, il mio piacere non conobbe confini. Pensavo già agli affari che avrei fatto. Avrei sommerso quella zona con ondate di tessuto di raso. E proprio in quel luogo cominciai a esibire le mie eccellenti doti di venditore. Anche se non avevo ancora neppure un pezzo di quella tela, dissi fino alla noia di possedere alcuni tagli di colore azzurro chiaro che andavano di gran moda, che la seta da loro indossata in quel frangente non era male, ma quella che io vendevo era di miglior qualità. In pratica, sparsi il seme della tentazione. Riconosco che questa menzogna (del resto, abbastanza elementare) e altre menzogne (colossali e molto elaborate) fecero di me, nei successivi dieci anni, un uomo ricco, e in altri dieci uno dei più opulenti della provincia di Oriente.

Sarà stato il millenovecentoventidue, quando aggiunsi alla linea di tela (s’intenda esclusivamente tessuto di rado) un’altra linea commerciale che, con il passare del tempo, mi avrebbe portato pingui guadagni. Una strana linea perché invece di vendere, compravo; in pratica, compravo voti. Bene, non mi meraviglia il successo ottenuto, in un certo senso ero un uomo famoso in Oriente, il campione dei venditori di tessuto di raso. Quando ho allargato l’attività con l’acquisto dei voti, la mia fama si è consolidata.

E siccome tutto mi stava andando bene, Rosita si mise di nuovo sul mio cammino. Non l’avevo più vista dopo la memorabile festa di diploma al Liceo di Santiago. Per farla breve: ci sposammo in un mese. Voi mi direte che io non l’amavo. Va bene, ma quel sentimento che chiamano amore io non l’ho mai provato. Il mio problema era sposarmi. Un uomo come me, che stava diventando rispettabile, non poteva rimanere scapolo. Vero che ero molto giovane, e anche se sono stato sempre un cubano perfetto, il mio obiettivo nella vita non è mai stato fare bisboccia ventiquattro ore al giorno; inoltre, e in linea con la mia febbre dell’oro, mi sposai anche con il denaro di Rosita. Questa cosa ve l’ho già detta; non mi sposavo con lei per il suo denaro, non era certo la cosa più importante, soprattutto mi sposavo, come ho detto, per acquisire rispettabilità e anche perché sono un uomo che ama la famiglia e non mi è mai piaciuto passare da una donna all’altra. Sì, le dissi che non ero innamorato, lei mi rispose che lo sapeva, che con il tempo avrei imparato ad amarla. In realtà non si sbagliò di molto, perché se è vero che per lei non provai mai un amore degno di Romeo, in cambio le volli bene con quella sincerità che basta a una donna innamorata per sentirsi felice.

Lasciai il tessuto di raso, si può dire che l’avevo già appeso al chiodo dell’oblio, per concentrare tutti i miei sforzi nella politica. In quel tempo passai senza colpo ferire da mero compratore di voti a capetto politico, e questo significava qualcosa. Per un uomo come me, che aveva appena venticinque anni nel millenovecentoventi (per la precisione sono nato il 19 maggio del 1895) non erano tutte da buttare le cose fatte fino a quell’età. Per cominciare avevo un capitale che quasi raggiungeva i tremila pesos. E poi vestivo elegante, portavo un anello di brillanti e un cappello di tela. Poco prima di morire, il nonno, vedendo i miei successi, mi disse: “Ragazzo, sono sicuro che farai carriera”. E così fu: quando finì la campagna presidenziale del Chino Zayas, gestivo due uffici di riscossione, quattro circoscrizioni ed ero consigliere del municipio di Bayamo. Inoltre, potevo disporre di un conto corrente di diecimila pesos.

Li avevo accumulati non so dire come, o forse lo sapevo fin troppo bene. Per me, ogni truffa era buona, e lo era, perché io sentivo puzza di marcio a cento leghe. Non sono mai finito in affari disastrosi; sporchi sì, ma disastrosi no davvero!

Ora mi ricordo la truffa di Manzanillo: venne a farmi visita Cebollón, il rappresentante per Manzanillo, e mi disse che se fossi andato al collegio elettorale di Yara e se avessi sottratto dall’urna i voti a favore di Sosa (che era il candidato sindaco dei conservatori), mi avrebbe messo in mano tremila pesos.

Non me lo feci dire due volte. Presi l’automobile, una seminuova che avevo comprato da mister Stone, l’americano dello zuccherificio, che aveva dovuto fuggire in maniera precipitosa perché gli era impazzito un figlio ad Atalanta, e in compagnia di Bero (un aiutante che tenevo con me) arrivammo a Yara. Siccome gli dei mi proteggevano, ebbi la gradevole sorpresa che il presidente del Collegio elettorale era Panchón, capo della zona Fiscale del mio paese, che veniva ritenuto onesto senza mezzi termini e che andava sempre dicendo: “Sono soltanto il fedele depositario dei fondi dello Stato”. Un furbacchione come pochi che io conoscevo bene. Lo presi da parte e gli parlai chiaro: “Ci sono mille pesos per te se mi lasci manomettere l’urna”.

E naturalmente, si prestò alla sottrazione dei voti, quindi festeggiammo con una bottiglia di Domecq. Dovetti sopportare quella cosa del fedele depositario oltre a dirmi che lui non era altro che un apolitico. Subito mi abbracciò e mi disse: “Rafa, e se ci scoprono?”. Lo tranquillizzai: “Sono amico personale del Chino”.

Per puro caso, l’ho incontrato la settimana scorsa. Si sorprese di vedermi ancora a Cuba.

Io ti facevo già a Miami… Non ti è arrivato il visto? Io lo sto aspettando. Sono già novanta giorni. Tu credi che mi autorizzino l’uscita?

Panchón era molto nervoso, e diventò ancora più nervoso quando gli feci sapere che non me ne sarei andato da Cuba.

Qui non si può più vivere; i comunisti si sono presi tutto… E tu, non venirmi a dire che sei comunista.

Certo che non sono comunista, ma non me ne vado da Cuba.

Allora, non me lo spiego. Ti hanno tolto tutto.

Bene – gli dissi, – tutto meno che il diritto di restare a Cuba. È già qualcosa; almeno per me.

Panchón scosse la testa. Fece un respiro profondo e disse:

Chico, guarda che lavorare tutta la vita come un mulo e che ora vengano questi comunisti a portarti via ogni cosa… Tu sai che nella nostra epoca il pesce grosso saltava, e tutti erano felici e contenti. E adesso… un disastro, vecchio mio, un disastro!

E come rispondendo a un pensiero, che senza dubbio l’ossessionava, aggiunse:

Che mi dici della soppressione del gioco d’azzardo? Mezza Cuba viveva con la roulette. Quanta gente andava avanti con i pesos di Castillo…

E con i tuoi – gli dissi.

Certo! Anche se io non ero un banchiere forte, davo comunque da mangiare al povero… – guardò a destra e a sinistra per assicurarsi di non essere ascoltato e aggiunse: – Sai quanto mi hanno portato via al gioco? Centomila pesos, tre case alla Vibora e un’ipoteca per cinquanta milioni! Ti sembra giusto?

Cosa potevo rispondergli? Certo, la pensavo come lui, con la differenza che io sono realista. Quando mi è toccato stare in alto mi sono divertito e ho suonato la tromba…; ora che sto in basso devo attaccarmi ai pali. Questo non lo comprende Panchón, né altri come lui, con i quali parlo fino alla noia cercando di far capire che anch’io – proprio come loro – desidero che Fidel se lo porti via un fulmine, al tempo stesso so che se non se lo porterà via, è lui l’uomo del momento e quindi dobbiamo sopportarlo.

Panchón e i suoi amici sono dei poveri idioti. Sarà meglio non vederli più. Passano la vita facendo confronti, cioè, paragonano Fidel con Batista, con Prío, con Estrada Palma, con Zayas, con Machado… Il risultato di tale confronto: qualunque cosa è meglio di Fidel. Non dirò di no, ma il Fidelón ha un vantaggio, e che vantaggio! Quei presidenti sono stati, lui è.

Dimenticano che ognuno di noi ha avuto il suo momento. Per esempio, io l’ho vissuto con Machado. Il suo governo mi ha fatto guadagnare oltre mezzo milione; inoltre, ho debuttato come oratore…

Si stava organizzando un comizio a Victoria de Las Tunas. Ricordo che stavo finendo di mangiare una paella quando mi si avvicinò Polito, il candidato senatore, e mi disse: “La sai l’ultima? Non abbiamo un oratore per il comizio di questa sera. Siamo proprio fritti. Hanno appena chiamato al telefono per dire che l’uomo dell’Avana è rimasto a Camagüey. Ha comunicato che ha la parotite”.

Dirò tra parentesi che l’uomo dell’Avana era Diosdado, oratore a pagamento per eventi politici di relativa importanza, uno dei tanti piazzisti rurali del commercio politico. Aveva facilità di parola; quando saliva sul podio non la finiva mai. “Compagni, che parlantina possiede il cittadino!”, dicevano i contadini a bocca aperta.

Polito pretendeva che io sostituissi l’immortale Diosdado! Mi cadde la forchetta per lo spavento:

Sei matto! Non ho mai parlato da un podio.

Questa sera lo farai per la prima volta – mi rispose – e parlerai fino alla noia… Questo comizio si deve tenere; i conservatori sanno già che Diosdado non verrà e che il nostro comizio sarà un fallimento.

Proprio così – dissi, – sarà un fallimento se io parlo da una tribuna. Meglio sospenderlo.

Mi attaccò:

Di sospenderlo non si parla neppure. Il comizio si deve tenere!

Ma tu credi che potrei?

Certo che potresti; in vita tua non hai fatto altro. Hai passato anni magnificando alle contadine le virtù del tessuto di raso. Andiamo, preparati! Lascia perdere la paella, ordina le tue idee, pensa a quel che dovrai dire…

E che cosa dirò? Ti giuro, Polito, ho paura.

Ragazzo, imposta il tuo discorso sulla base del motto presidenziale di Machado: Acqua, Strade e Scuole… Con quelle tre parole puoi parlare per ore intere.

E così fu. Cercando di imitare l’inimitabile stile di Diosdado, parlai fino allo sfinimento. Certo, più che parole, erano ruggiti, imprecazioni, frasi senza senso, ma che possedevano la virtù di sbalordire il mio uditorio. Soprattutto, quei finali, la cui efficacia si basa sul tono delle parole: “Quii tuuttii siiaamoo diispoostii aa saacriificaarcii suull’aaltaare saacroosaantoo deellaa paaatriaaa!...”.

Risultato pratico di quel discorso: arrivò agli orecchi del Generale. Quando si fermò a Holguín durante il suo viaggio per le provincie mi mandò a cercare: “So che a Las Tunas hai parlato molto bene”, mi disse dandomi una pacca sulle spalle. “Preparati per Santiago”.

Questo voleva dire che ero nell’elenco degli oratori che avrebbero avuto l’insigne onore di parlare nel comizio che avrebbe segnato la fine della campagna elettorale. E fu, al tempo stesso, il vero inizio della mia carriera politica, da quel momento così sfrenata e in rialzo, che da allora non si è più fermata. Bene, Fidel mi ha bloccato, ma se le cose non fossero cambiate a tal punto, a quest’ora sarei presidente del Senato del governo di Riviero Agüero.

Mi spiace, perché ero nelle condizioni di fare un buon lavoro. Lo so già, state pensando che sono una perla rara. E allora! Il diavolo finisce per farsi frate. Il fatto è che il denaro non mi interessava più tanto. Non dico che se si presentava un buon affare non ci avrei messo mano… ma è anche vero che quando uno ha fatto molto denaro ha voglia di fare anche altre cose. Naturalmente, di rivoluzione non volevo neppure sentir parlare: non sono nato per farla, come non volevo combattere con gli americani e meno che mai diventare amico dei comunisti. Ma mi sarebbe piaciuto fare case, strade e scuole sul serio, questo sì. Signori, è vero che ho fatto per me le case, le strade e le scuole di quattro o cinque governi, quindi avevo il diritto di farle sul serio almeno una volta! Anche se pensandoci bene, non credo che avrei avuto molto tessuto dove tagliare; i ragazzi di Rivero Agüero sarebbero venuti per la colla, pronti a portarsi via tutto. Mi sembra di sentirli: “Rafa, levati di mezzo… Siamo disposti a tutto. Non essere noioso, vecchio! Tu vieni dal passato, ma noi siamo nuovi e siamo qui per prenderci tutto…”.

Ma fu Fidel a prendersi tutto. Non dette loro neppure il tempo di rubare un soldo bucato. Voi direte che a questo gioco a me andò pure peggio, visto che persi capra e cavoli. Non lo nego, ma con la differenza che io ho vissuto la mia vita. Che mi tolgano la musica che ho ballato, se possono! Dal 1925 me la stavo godendo alla grande! E godevo nel modo migliore possibile: due o tre amanti, viaggi in Europa, anelli di brillanti e catene d’oro massiccio. Che cosa ne potete sapere! Molti di voi impegnavano i documenti della macchina e pagavano una compagna due pesos, e se indago un po’ scopro che prendevano un pasto alle dodici e una frittata alle sei, perché non potevano permettersi altro… Ma io, io, Rafa Sánchez Trevejo, suonavo il clarinetto… Perché tutte quelle persone che Batista si era messo intorno erano dei cacasotto. Facevano addormentare il Generale, e io molte volte glielo dissi, ma non c’è peggior sordo… Lui rideva e mi diceva: “Guarda, Rafa, il problema è che stai diventando vecchio. Qui non succederà niente. Fidel si stancherà di starsene sulla Sierra e vedrai che un giorno, se non lo uccidiamo prima, prenderà una barchetta e se ne andrà da qui”.

Il Generale fu cattivo profeta e soprattutto ci lasciò nei guai. Meno male che non facevo parte di quel gruppo, altrimenti meglio non pensarci… Mi lasciarono la casa, l’automobile, una piccola fattoria nel Wajay e il denaro in banca.

A posto!, come usano dire adesso. Io lo so che sono a posto. Questo non è quel che pensa Rosita, – come Caruca e mio genero –, che spedisce lettere da New York parlandomi di vergogna e dignità. Non so come osi… Io l’ho fatta diventare una persona rispettabile e lei mi ricambia trasformandosi in squalo. Si mise in tasca duecentomila pesos nell’affare del riso ai tempi di Inocencio Álvarez. E nonostante tutto parla di dignità e patria. Bene, tutto questo è storia passata, e io vivo nel presente. Infatti qui sono proprio a posto. E a proposito del passato, ho dato un taglio netto. Faccio tutto il possibile per evitare la poca gente della mia epoca che ha deciso di restare. Non mi è mai piaciuto avere a che fare con i fantasmi. Queste persone passano la vita parlando di quel che hanno perduto e sognando di tornare in auge. Lontano da me! Io non sogno, io sto con i piedi per terra. Adesso sono soltanto un Rafa qualsiasi, ma continuo a pensare che la vita valga la pena. E se faccio di tutto per allungarla è per lo spettacolo che vedo tendendo la vista al passato. Signori, che bachata!

Voi mi direte: Rafa, ma la bachata è cosa del passato, adesso ti hanno messo da parte. Non ti preoccupa il presente? Avanti, rispondi se puoi.

E ora risponderò a questa domanda inquietante che mi viene fatta non senza un certo tono ironico. Il presente! Ve lo racconterò con piacere. Vi anticipo che non è gran cosa, certo, per chi si aspetterebbe eventi epici in questa fase della mia vita. Per me, invece, è un presente molto attivo. La festa, perché di questo si tratta, si celebra durante la notte; durante il giorno mi immergo nella deliziosa aspettativa di quel che accadrà nel corso della festa: come mi andrà, di quale umore sarà la gente, se sarò ispirato, o se come è successo alcuni giorni fa mi andrà male per tutta la notte. Vi anticipo che questa cosa è stata una sorta scialuppa di salvataggio che mi hanno lanciato; quando ero più annoiato, quando, passando la giornata, con le mani in mano, mi riempivo la testa con quelle inezie del passato e quel che è peggio, cominciavo a fare quei giochi mentali nei quali uno, proprio come un mago, dispone degli uomini e degli elementi secondo la sua volontà, scoprii il passatempo che mi avrebbe stabilizzato nella realtà. La realtà, brutta parola, se esiste; fantasia, bella parola che, secondo i poeti, è come un apriti sesamo. Uno di loro, un poeta di Bayamo, che faceva versi come salsicce, mi disse in una certa occasione, non ricordo più a quale proposito: “Una sola fantasia vale più di cento milioni di realtà”. Credo che le mie risate si siano udite fino all’Avana. L’uscita di Poncholo – così si chiamava colui che un tempo consideravo il più in gamba del paese – mi divertì così tanto che gli regalai un peso. Adesso so che il più in gamba ero io; e lo ero perché per me esisteva solo la realtà di accumulare denaro. Le persone che vivevano altre realtà mi sembravano dei perfetti idioti. Se in quel periodo qualcuno fosse venuto a dirmi che in un momento critico della mia vita la fantasia sarebbe venuta in mio soccorso, lo avrei mandato al diavolo. Uno crede di essere soltanto una nullità e quando meno se l’aspetta scopre di essere un tipo in gamba. E me ne vanto! E finirò i miei giorni come un tipo in gamba, senza cessare in alcun momento di esserlo. Mi sono salvato grazie a una zattera. Ed è questa la cosa singolare: dopo tutto sono un tipo fortunato. Lo dico perché, senza volerlo, sono riuscito a conciliare due cose così contrapposte come la fantasia e l’utilitarismo. Vi ho già detto che avevo un vero orrore di cadere in quel marasma che trasforma il cervello in un mucchio di spazzatura; quella perniciosa situazione che ti porta a ripetere, giorno dopo giorno, ora dopo ora, tutto quello che sei stato, ben sapendo che la ruota non tornerà indietro. Ma la fantasia venne in mio aiuto, così all’improvviso, nel Miami, una sera in cui seduto al bancone mi torturavo pensando che quando tutto questo sarebbe finito io sarei tornato alla ribalta… “Mi basterà fare due o tre buoni affari per tornare a essere il Rafa che sono sempre stato, porterò Rosita a New York, la metterò davanti alle vetrine di Tiffany e le dirò: comprati il brillante più grande”. Figuratevi un po’… Stavo fantasticando sulla scorta del passato, e questo mi faceva male perché, oltre a torturarmi, non mi portava alcun vantaggio. Che questo sport lo pratichino coloro che nella vita non hanno fatto altro che sognare, passi; ma io, il vecchio Rafa, uomo pratico al cento per cento… Ricordo che quella sera fantasticai più del solito, ormai avevo superato i cento milioni e i magnati nordamericani venivano all’Avana per mettere in atto piani strategici di rapina internazionale.

Il risultato di tutte quelle immaginazioni era di mostrarmi la cruda realtà. Rosita e Monona a New York a sparare le ultime cartucce; io all’Avana, tirando le mie. Mi venne un gran dolore di pancia, la vista si annebbiò, rovesciai il cocktail… Mi guardai intorno come per cercare un punto di appoggio che mi tirasse fuori dall’incubo. All’improvviso sentii una voce di donna che diceva: “Papi, voglio quella cosa rosa…”. Una contadina, che faceva spavento, indicava con il suo indice ossuto che terminava in un’unghia lunga come un pettine di tartaruga, il gelato di fragola che un gigantesco ciccione mangiava di gusto. “Forza, Papi, compramelo”, insisteva. Nel frattempo, il marito, o quel che era, cercava con lo sguardo un’altra cosa di suo gusto, che senza dubbio non era identica a quanto richiesto dalla sua donna. Girava gli occhi con una certa dose di trepidazione e premura, perché il cameriere era sul punto di chiedere loro che cosa poteva servire. Infine trovò quel che cercava, perché allungando, proprio come la contadina, l’indice in direzione di una bionda, che sorbiva lentamente un gelato al mango, disse tra sé, ma con voce alta. “Io voglio un po’ di quello…”.

In altre circostanze meno drammatiche o del tutto felici, come quelle che ebbi la fortuna di assaporare nel corso della mia vita da plutocrate sarei scoppiato a ridere a crepapelle; ma nella situazione attuale, la smorfia disegnata nella mia bocca per via dell’angoscia che mi possedeva persistette malignamente. Vale a dire, che avevo motivi a sufficienza per essere allarmato: “Come, Rafa!” – mi dissi – “Tu, così realista, mi diventi adesso un immaginifico? Senti vecchio, abbandona questa posa e torna quel che eri...”, ma le parole mi si scioglievano in testa proprio come il gelato nella bocca della contadina.

Un vecchio residuo di pudore, potremmo dire stile gran signore, frenava la voglia pazza che avevo di cominciare il gioco; non era nelle mie possibilità mettermi a indovinare la scelta dei gelati da parte delle persone che stavano per consumarli. Mi restava davvero poco, ero vicino allo zero assoluto, alla congelazione colorata, alla morte mascherata in una rigida coppa.

E se avessi insistito a non conformarmi alla nuova situazione? In quel caso avrei proseguito il soliloquio con gli anni passati. “No, Rafa”, mi dissi, “devi provare che sei qualcosa di più di una reminiscenza”. Di conseguenza, posai lo sguardo su un ciccione (con una bocca capace di ingurgitare dieci gelati alla volta) e guardandolo come per obbligarlo a ordinare ciò che la mia volontà chiedeva, cominciai a tamburellare le dita sul bancone palesando un’indifferenza che ero ben lungi da provare.

Naturalmente io dissi tamarindo e lui disse cocco, ma nonostante avessi perso questa, per così dire, prima mano, mi sentii comunque selvaggiamente eccitato. “La notte è lunga”, mormorai, “la notte è lunga, qui chiudono all’una del mattino: ora sono le nove, ho quattro ore davanti a me. Possono esserci delle sorprese”.

Per aggiungere suspense decisi che avrei perso un peso per ogni gelato non indovinato. Genio e figura… Che cosa possiamo fare alla vecchia natura! Nel frattempo arrivarono nuovi clienti, e io ero lì, intento alla delicata, intangibile operazione di conoscere le loro anime per capire i loro gusti.

Siccome, mi dicevo, la persona che ora si sta mettendo a sedere facendo un gran rumore altro non è che un’anima colma di scortesia e bassi istinti; questo individuo non potrà in alcun modo chiedere quel colore misterioso, così pieno di segreti della fragola, e neppure il disperato grido di nostalgia del limone che oscilla nella gelateria come un desiderio insoddisfatto.

Ma, cosa singolare, il tipo cui negavo la qualità dell’eleganza chiedeva proprio il limone o la fragola, costringendomi alla dolorosa operazione di concedergli un’anima che nel mio intimo negavo di riconoscere. Ma ugualmente, il gusto che lui mostrava, così sicuro e direi quasi, così feroce, mi eccitava selvaggiamente. Tanto selvaggiamente che ben presto sprofondai fino al collo in quel giochetto, ed è per questo che il mio hobby si è fatto così ossessivo che adesso prendo posto al Miami fin da mezzogiorno. Io so che i vecchi camerieri, amici miei da trent’anni, cominciano a mormorare che sono pazzo. Li ho sorpresi mentre si scambiavano sguardi significativi, in quattro o cinque occasioni mi hanno indicato con il dito, e, ormai è chiaro, stanno per arrivare a burlarsi di me. Ritengo che nel breve volgere di un mese mi avranno messo un soprannome.

Ma tutto ciò non mi preoccupa. Neppure mi sono alterato quando giorni fa, uno di loro mi ha detto: “Caspita, signor Rafa, lei non prende più gelati, adesso se li mangia con lo sguardo…”.

Se lui e il resto dei camerieri sapessero perché li guardo! Se lo arrivassero a sapere le stesse persone che vado osservando! Finirei al manicomio, cosa che sarebbe comunque un controsenso. Non sono mai stato tanto sano di mente come adesso. Prima ero pazzo, quando mi occupavo solo di denaro, di affari sporchi e delle donne. E parecchio! Ma adesso, che sono tornato alla fanciullezza, all’abbandono, alla solitudine, adesso sono così sano di mente che niente al mondo sarà mai capace di farmi diventare pazzo.

So di essere al limite della derisione pubblica. Ancora un po’ e andrò a rimpinguare le fila degli avaneri matti, ma prenderò le mie precauzioni. Per esempio, abbandonare il mio caro Miami. Come! Si ritira? Non continua il gioco?... Non vi preoccupate. Continuerò il gioco, solo che sceglierò un’altra gelateria. Ora che sono tornato all’infanzia, devo essere prudente. In materia di sovranità la sola che mi è dato possedere è quella dell’immaginazione. Immaginare quale gelato sceglierà o non sceglierà il cliente, mi colloca in un limbo esistenziale dove non sei morto ma non puoi neppure dire di essere vivo.

 

 

(Da: Virgilio Piñera, El que vino a salvarme, 1959)

Traduzione di Gordiano Lupi


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