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Antichi mestieri e nuove proposte/ Paolo Dubla 
Intervista di Maria Lanciotti per #MadeinRome
11 Settembre 2017
 

È a rischio secondo me la cultura italiana. Vedo una demolizione di quelle che sono le possibilità per i giovani musicisti. Invece di pensare se con la cultura si mangia o no, pensiamo a una società senza una forma d’arte”

 

 

Una storia che parte dalle brume e gli sterminati oliveti di Rocca Massima con un nonno falegname e il ritorno all’antico borgo del nipote liutaio. Paolo Dubla, nato a Velletri nel 1983, fra i vincitori del concorso nazionale “Premia la tua idea di impresa” edizione 2015, rappresenta da qualche tempo un’altra eccellenza di questo nido d’aquila posto su uno sperone, il comune più alto in provincia di Latina. Trecento anime e tanta animazione anche quando tutto sembra fermo nel tempo.

Paolo si presenta con un sorriso disarmante e quietamente, quasi meditando ogni parola, ricostruisce le fasi di un percorso tortuoso e affascinante che tuttora lo impegna in una ricerca che va oltre le ragioni di studio e di lavoro. Ascoltarlo è anche un interrogarsi sulla nostra società e il senso profondo e inalienabile dell’arte.

 

Paolo, com’è arrivato a essere quello di oggi?

Tutto lineare fino alle superiori, poi inizio a suonare la chitarra. E da lì c’è stato un cambiamento di mentalità, forse anche di valori. La musica l’avevo sempre ascoltata con piacere, ma entrandoci, suonandola, ho sentito il bisogno di capire altre cose. Il tocco, i suoni sempre diversi secondo chi suona lo strumento. E capisco che faceva parte dei sentimenti. Una volta un amico con cui suonavo, senza mai sentirmi all’altezza, mi disse: “Come tu suoni la chitarra non la suonerà mai nessuno, come la suoni tu, è tua”. Questa cosa mi ha appassionato sempre di più, poter esprimere sentimenti e provare emozioni.

 

Come ha proseguito gli studi?

Dopo l’ITIS ho preso ingegneria. Ma c’era qualcosa che non andava. Mancavo proprio di concentrazione. E suonavo troppo rispetto a quanto dovevo studiare. Avevamo messo su un gruppo, Sensi Inversi, e avevo iniziato a scrivere canzoni. Da lì è nata la liuteria.

 

In che modo?

Porto il mio strumento in una bottega a Genzano di Roma e trovo questa persona molto pacata. Ma io non vedevo una via d’uscita. Fino a che intorno ai 25 anni lascio l’università e segue un anno e mezzo di limbo.

 

Poi che succede?

Non avendo in quel momento altri impegni, mi attivo. C’erano due scuole di liuteria, a Milano per chitarra e a Parma per strumenti ad arco. Faccio domanda a entrambe e mi prende la scuola di Parma. La liuteria per chitarra ha più richieste, ma nel pensiero vedevo più attraente la liuteria ad arco. Tutto più artistico. Fra la decisione e la partenza passano diversi mesi. Quando arriva da Milano risposta negativa, mi ero quasi rassegnato. Poi mi chiamano da Parma ed è partita, mi sono trasferito per quattro anni.

 

Era convinto a quel punto di portare avanti quell’esperienza?

Non ero convinto ma determinato. Non avevo assolutamente manualità per quel lavoro che ti chiede tantissimo. È stato un periodo durissimo, mi ha aiutato un corso di yoga. Il primo anno fu quasi una bastonata. Poi un amico, quasi un fratello, Luigi Licci, mi prese in falegnameria a lavorare con lui. E mi sono ancora di più innamorato di quel lavoro. Mio nonno, Ruggero Tomei, era falegname, da piccolo stavo sempre con i pezzetti di legno, incollavo, costruivo, tutto per gioco. E dicevo che da grande volevo fare il falegname.

 

Come fu l’approccio con l’insegnamento, ricorda qualche maestro in particolare?

È stata un’esperienza dura. Renato Scrollavezza, maestro rigoroso, d’altri tempi, artigiano molto artista nel suo lavoro, non mi vedeva di buon occhio, non credeva nelle mie possibilità, ma poi i preconcetti iniziali gli sono passati. Quindi ti prendi le bastonate come parte di quella rabbia che ti deve uscire fuori per portare avanti qualche cosa.

 

Maestro duro ma stimolante…

Sì, tanto è vero che a un certo punto mi è scattata una sfida. Alla fine dell’ultimo anno non frequentavo più quando c’era lui, ma intanto costruivo un violino e prima di andarmene l’ho portato a casa sua. E lui non voleva credere che l’avessi fatto io. Mi disse: “Tu non ci crederai, ma nella vita c’è sempre da imparare”.

 

Quando consegue la qualifica di Maestro liutaio? quale il passo successivo?

Ottengo l’attestato di frequenza della scuola parmense nel 2014. Torno a Velletri e trovo che si stava lavorando alla ristrutturazione e restauro della casa a Rocca Massima che era di mio nonno. Avevo bisogno di uno spazio dove sistemare l’attrezzatura, chiedo a mia madre e lei l’ha vista bene. Ho portato su il laboratorio a marzo del 2014.

 

Nel 2015 partecipa all’iniziativa “Premia la tua idea di Impresa” promossa dai 4 comuni del Distretto fra cui Rocca Massima, in collaborazione con Bic Lazio. E lei ottiene il primo premio, consistente in 5.000 euro. Ci aveva puntato?

Si trattava della presentazione di un’idea del proprio lavoro. E forse fra tutti i progetti valutati è stato scelto il mio anche perché era il più concreto. Il laboratorio era già aperto, avevo già costruito violini, quella cifra mi sarebbe servita per avviarlo. Tuttora è difficile darci dentro, all’inizio è dura, quella cifra mi ha dato un po’ di ossigeno.

 

Ha costruito altri strumenti oltre ai violini? Come trova i suoi clienti?

Ho fatto sempre violini tranne una viola. Per le commissioni giro per Conservatori, incontro persone. A Frosinone ho conosciuto Alessandro Asciolla, violinista e docente, figlio del celebre Dino. Il maestro ha visto il violino, io non avevo idea di come avrebbe reso il suono. Lui l’apprezzò e cominciò a parlare di stradivari. Ma non acquistò il violino.

 

Ha contatti con i suoi colleghi?

Ho frequentato Corrado Cavalieri, diplomato anni prima alla mia stessa scuola a Parma. Violinista professionista, ha avuto questa folgorazione e si è messo a fare il liutaio. Se non fosse stato per lui forse non sarei riuscito mai in questo lavoro. Lo stesso vale per Scrollavezza e Licci, forse bastava mancasse uno dei tre perché le cose andassero diversamente.

 

Ha avuto mai ripensamenti?

Nel costruire, tutto si fa più complicato di come la vedevo. L’importante è mantenere lo stato di grazia. Passano periodi in cui non si sente nessuno, e tu costruisci pensando che le cose andranno bene. L’ansia può prenderti. Fare violini non vuol dire pensare di farti ricco. Questo è un lavoro che ti fa vivere, normalmente ma ti fa vivere.

 

Personalizza i suoi strumenti? Tende a costruire qualcosa di rivoluzionario?

All’inizio sono stato molto nello standard ma quando penso al modello stradivari allora lo faccio come ce l’ho in mente, portando la cosa più vicina a me. Corrado una volta mi disse: quando costruisci dentro c’è tutto, la litigata che ti sei fatto con la ragazza, il figlio che è nato… c’è tutto, dentro quel violino.

 

Liuteria artigianale e industriale. Il mercato?

Il mercato esiste, non è poi così fermo. C’è molta richiesta dall’estero, la liuteria italiana è vista ancora come quella che viene da Stradivari e continua questa tradizione. Da qualche tempo le cose vanno meglio. I segni che ci si possa riuscire ci sono. La mia impressione è che ci sia più interesse. C’è da capire i momenti in cui non vendi e poi ti riprendi e vai. Lavorando su commissione stai in paradiso. Nel mio àmbito la cifra è concorrenziale rispetto al liutaio affermato. C’è un mercato strano, cinese, e comunque estero, che produce strumenti anche fatti a mano, poi li verniciano in Italia e li vendono come artigianato italiano. Se sono onesti te lo dicono che non è italiano e lo paghi duemila euro come il violino di fabbrica. Se non c’è la commissione io comunque il violino lo faccio. Il problema è che quando lavori non vai in giro, non proponi lo strumento. Ovviamente in quel periodo non hai l’entrata, l’avrai.

 

Lavorando con pazienza certosina in un luogo così isolato e tranquillo, riesce a tenersi ancorato alla realtà?

Sì, anche se a volte vorrei uscirne ancora di più. Questa situazione la vivo molto bene, è come se mi trovassi nel posto ideale. Il problema è che sei isolato da quelli che sono i servizi, ma con internet basta organizzarsi.

 

Il presente dell’artigianato e nello specifico della liuteria: quanti sono in gioco come lei?

Ce ne sono, c’è un bel movimento. È a rischio secondo me la cultura italiana. Il problema è legato alla musica: se non suonano tu non vendi. E non basta che suonino in piazza, ma anche in un certo modo, devono vivere di musica in questa società. Io lavoro soprattutto con gli studenti da cui non ti viene subito un rientro, devono avere il tempo di crescere, studiare e forse arrivare. Il professionista è più immediato, porterà lo strumento in un’orchestra e qualcuno gli chiederà chi è che l’ha costruito.

 

Con che spirito guarda al domani?

Ci sono in ballo ricerche personali. A volte ho ancora più voglia di staccarmi dalla ‘realtà’, vedo una demolizione di quelle che sono le possibilità per i giovani musicisti. Invece di pensare se con la cultura si mangia o no, pensiamo a una società senza una forma d’arte. Angosciante, specialmente alla luce di quello che accade tutti i giorni. Allora ti isoli il più possibile e dici come vada vada io questo faccio finché posso. E forse da pazzo dico che siamo di più di quelli che fanno del male. Anche se non conta il numero ma il potere.

 

Progetti in vista?

Sì, si profilano buone opportunità ma è prematuro parlarne.

 

Potrebbe tornare a pensare a un altro tipo di attività?

Credo faccia parte delle incognite della vita. Non vorrei mettere paletti a quello che potrebbe essere il futuro.

 

Maria Lanciotti

(in #MadeinRome, 18 aprile 2017)

 

 

 

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