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Marisa Cecchetti. “Io non mi chiamo Miriam” di Majgull Axelsson
01 Settembre 2017
 

Majgull Axelsson

Io non mi chiamo Miriam

Traduzione di Laura Cangemi

Postfazione di Bjorn Larsson

Iperborea 2017, pp. 576, € 19,50

 

Nella postfazione al romanzo della Axelsson, Io non mi chiamo Miriam, Bjorn Larsson fa notare come ci fosse “una sorta di tabù dopo la guerra che impediva di pubblicare e diffondere le testimonianze sui lager e in particolare sui campi di sterminio”, prova ne sia il fatto, lui ricorda, che Se questo è un uomo di Levi fu rifiutato da Einaudi. “Solo all’inizio degli anni Sessanta vennero meno i tabù”, fatto a cui contribuì il processo a Eichmann nel ’61. Tuttavia, tra gli innumerevoli scritti che seguirono, testimonianze e studi storici, “non si trova nessun esempio di vera e propria finzione letteraria”. Larsson cita comunque, come raro esempio di romanzo dell’Olocausto, La scelta di Sophie di Styron del ’79.

Per questo siamo abituati alle autobiografie. Ma Majguli Axelsson, scrittrice svedese, classe 1947, ha raccolto tante testimonianze, ha visitato campi di concentramento, si è documentata con una così ampia bibliografia, ma soprattutto ha sentito il dramma con una così profonda partecipazione, da riuscire a creare una storia coraggiosa e struggente intorno ad una sopravvissuta protagonista del suo romanzo, Miriam, ovvero Malika.

Malika è una giovane rom, il nonno è stato soldato tedesco. La sua famiglia è stanziale in Germania, lei è di sangue misto perché il padre è zingaro ma la madre no. Parla tedesco e romanés, ha un fratellino, Didi.

Ma Malika è anche Miriam che, ormai vedova di Olof, a Nässjö, in Svezia, sta festeggiando il suo ottantacinquesimo compleanno insieme al figlio Thomas ed alla famiglia di lui.

È una sopravvissuta a Ravensbruck, dopo aver sperimentato Aushwitz. È arrivata in Svezia a fine guerra con un treno della Croce Rossa carico di ebrei. I rom allora non erano accettati in Svezia; nel 1948 c’è stata addirittura la caccia ai tattare, agli zingari e la situazione è cambiata per loro solo nel 1954.

Quando Malika è diventata l’ebrea Miriam? È successo in una situazione di estremo pericolo: ha indossato le vesti di una giovane ebrea morta su un treno e ne ha preso il nome. Il numero tatuato della donna corrispondeva al suo, -incredibile volontà del destino- bastava raschiare un altro segno con una piccola ferita: ha pensato di avere in questo modo maggiori possibilità di salvezza, perché gli ebrei sopravvissuti sarebbero stati aiutati, mentre gli zingari sarebbero rimasti feccia disprezzata.

Ha mantenuto il segreto per tutta la vita, si è adattata velocemente e con intelligenza acuta ad ogni situazione, imparando una nuova lingua, non parlando mai del suo passato, e questo con grande rispetto dei suoi, una buona famiglia borghese. Tuttavia le atrocità vissute sono rimaste nei suoi occhi e nei suoi incubi.

Che avesse dei grandi segreti forse qualcuno lo ha intuito ma nessuno l’ha messa in difficoltà, e se ci sono state situazioni di rischio, Miriam le ha superate brillantemente. Non ha mai trovato il coraggio di sconvolgere il suo stato sociale e di rinunciare alla sicurezza affettiva.

Nel giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, di fronte ad un regalo – uno splendido bracciale di artigianato rom con il nome inciso – le sfugge la frase compressa e nascosta, io non mi chiamo Miriam, attribuita dai parenti ad uno scherzo dell’età. Più tardi, durante una passeggiata con la nipote Camilla nel parco, lentamente viene fuori la verità, ma solo per Camilla.

Ha sempre mentito. Sempre a controllare parole ed emozioni, ad imparare nuovi comportamenti, a dimenticarne altri. Ed a fingere, pur con dolore, di non conoscere la lingua rom, tenendo stretti dentro di sé i volti e le sofferenze dei suoi cari. Quelli di Malika.

Ma è stato vero l’amore per il marito, per il figlio di lui che Miriam ha accolto neonato, e per tutti coloro che hanno accompagnato il suo cammino. Nonostante il suo passato tragico, o forse proprio per questo, il suo attaccamento alla vita è sempre stato vincente.

La Axelsson alterna una narrazione in terza persona ai ricordi di Miriam in prima persona, con i campi di sterminio ricostruiti in un crescendo di orrore. Pause di respiro sia il dipanarsi della giornata di compleanno con i suoi chiaroscuri, sia il rafforzarsi del rapporto di complicità tra nonna e nipote a passeggio nel parco.

 

Marisa Cecchetti


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