I momenti di pace e di raccoglimento nei quali, a sera, cerchiamo di rifugiarci, facilmente cadono in frantumi sotto i colpi di spada nemica: il rumore infrange il silenzio e l’offende.
Ma... forse che l’éra nostra non si distingue per assenza di armonie e di suoni?
Povera di parole, essa è stracolma di “voci” che non “dicono”, ma stordiscono col caos della dispersione, dello smarrimento dell’essenziale.
Assistiamo alla corsa verso locali affollati alla ricerca di musica assordante, di concerti rok e simili.
Giovani a branco si espandono, a notte avanzata, nelle vie, nelle piazze, in folle corsa nelle autostrade; fa paura il branco perché facilmente esplode coralmente nella sua brutalità, volgarità, aggressività. Eppure… se si osserva attentamente il volto di ciascuno di loro, vi si scorgono i segni della debolezza, dell’insicurezza.
Psicologi e sociologi spiegano che alla radice dell’“imbrancarsi” c’è la paura della solitudine dello stare con se stessi.
Personalmente ritengo che vivere e convivere con la solitudine – ieri come oggi – è una delle imprese più ardue e non solo per i giovani.
Cosa offriamo ogni sera a noi stessi? Il rumore del mondo che passa?
Siamo privi di quella saggezza che ci consigliava l’imperatore romano Marco Aurelio, la saggezza di dedicare pochi momenti della nostra giornata al raccoglimento, in solitudine, lontano dal frastuono.
Solitudine come oasi per l’anima e non come isolamento o mancanza di relazioni che equivarrebbe a prigione.
Il filosofo Arthur Schopenhauer in Aforismi della saggezza del vivere scrive: …uno degli studi principali dei giovani dovrebbe essere quello di imparare a sopportare la solitudine perché questa è fonte di felicità e tranquillità d’animo e B. Pascal aggiunge che la sorgente di tante sventure dell’uomo sta nel suo non essere capace di rimanere un’ora al giorno da solo nella sua stanza.
Le nostre giornate troppo “esistenzializzate” non hanno un solo istante “essenziale”.
Abbiamo forse smarrito il piacere della parola efficace, del silenzio rigeneratore e fecondo? (G. Rando)