Il teatro, la letteratura e poi anche il cinema, a proposito della famiglia ripetono senza stancarsi da decenni, perfino da secoli, una verità: che essa può essere il luogo in cui covano e si alimentano sentimenti morbosi, o vere e proprie malattie mentali; favoriti dal clima di segregazione, di un mondo chiuso e “a parte” rispetto al resto della società, che nella famiglia può svilupparsi; dalla quotidiana prossimità tra consanguinei, tra i quali possono nascere desideri incestuosi; dall'autorità oppressiva, a volte violenta, tradizionalmente esercitata dal padre, che impedisce a conflitti e a patologie, di maturare, di chiarirsi alla luce di un franco dialogo.
Non è questa evidentemente la famiglia tout court; è il suo volto in ombra, che l'arte è chiamata a esprimere, come ogni zona d'ombra che sia nell'individuo o nella società.
Questi ricorrenti, secolari capi d'accusa contro la famiglia, nella sua versione più antica, ancestrale, si ritrovano rievocati, con molta precisione ed efficacia, in un film argentino (è in effetti una produzione ispanico/argentica) di un regista quasi esordiente, Martin Hodara (il suo precedente lungometraggio era stato girato a quattro mani con Ricardo Darìn).
Accade che un vecchio padre di famiglia – padre di quattro figli – che ha convissuto fino all'ultimo con uno di loro in un capanno isolato sulle montagne, muore.
È l'occasione per cui un altro dei figli, trasferitosi da tempo in Spagna, dove si è sposato con una moglie più giovane che adesso aspetta un bambino, torna a trova il fratello, rustico e solitario, anche per discutere con lui della questione dell'eredità. Quel capanno, e il terreno su cui è costruito, interessano infatti una compagnia mineraria, disposta a sborsare per l'acquisto una somma esorbitante: ma il fratello che vi è vissuto fino ad allora si rifiuta di venderlo.
E la sorella, malata di mente, internata in una casa di cura, non è in grado evidentemente di interloquire con lui. E il quarto dei figli è morto bambino, per un misterioso incidente.
Si comprende presto che il ricorso costante ai flashback, così come l'attaccamento ossessivo di uno dei fratelli a quel capanno, è dovuto alla presenza onnipervasiva del passato, nella psiche sua e dei suoi familiari. Un passato intessuto della violenza sadica del padre sui figli, di una passione incestuosa, di un omicidio tra familiari, che non è mai stato portato alla luce della coscienza e della legge, ma espiato, nell'omertà, all'interno stesso della famiglia. E se quei segreti sono gradualmente chiariti allo spettatore, si intuisce che saranno seppelliti all'interno della nuova famiglia che si sta formando, forieri probabilmente di nuovi sensi di colpa, di nuovi conflitti sotterranei, eternamente irrisolti.
Si potrà forse rimproverare a Neve nera una certa retorica del mistero, il ricorso a certe atmosfere tipiche del film noir, che lo rendono a momenti un po' di maniera.
Ma i ritratti dei personaggi, nel presente e nel passato, i loro comportamenti, i loro gesti e i loro sguardi, sono resi con finezza; sempre, o quasi sempre, con senso di verità.
Merito anche degli attori che li interpretano, tutti molto bravi. Il più noto è Ricardo Darìn.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 26 agosto 2017
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