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Marco Cipollini: Tempo di lupi.
17 Gennaio 2007
 

Mette a neve,” fa don Bruno affacciandosi alla finestra.

Chiuda! Non lo sente che freddo?” È Tonella, la perpetua sessantenne, che prima di servire dal prete ha fatto un po’ tutti i mestieri di montagna, anche la balia, non autorizzata; ma chi ci andava con la neve ai casolari sparsi e isolati? Lei, mica quelle col diploma.

Don Bruno chiude i vetri e si struscia le mani infreddolite. Come pievano di Bramasole è preoccupato. Già quel villaggio sul declivio si è spopolato e poi buona parte dei suoi parrocchiani risiede fuori di quella trentina di case, sparsa nei dintorni. Riflette a voce alta: “ci si mette presto… Se riempie le strade e non le spazzano a dovere, come l’anno scorso, alla Messa di Natale le panche saranno parecchio sgranate…”

Le viuzze del paesino sono vuote: la tramontana ha cessato di soffiare, il silenzio è come un foglio bianco senza una macchiolina di rumore. Dai tetti ammucchiati salgono sparsi peneri di fumo, e al di sopra si staglia curvamene l’alto Appennino già incrostato di candore, e su tutto l’immacolata Alpe della Luna.

Anche a Sansepolcro, più a valle, le strade addobbate di festoni sono poco frequentate. A quell’angolo però c’è come un subbuglio, e subito è un rimescolio di furia: dalla gran porta a vetri della banca, di colpo spalancata, schizzan fuori tre clienti col passamontagna, pistole in pugno, e un sacco bitorzoluto di denaro. S’infilano in un’automobile nei pressi e sgommano a tutta velocità. Intanto dalla banca escono, prima radi e esitanti e poi in massa agitati, clienti e impiegati, e tutti si mettono a gridare: “una rapina! C’è stata una rapina!” Finestre appannate si aprono, la gente si affaccia dai negozi. Dopo qualche minuto piomba la polizia. Quanta gente! Sansepolcro è tutta viva in quei centro metri.

L’automobile non si dirige alla strada statale perché entro pochi minuti, è chiaro, sfungheranno i posti di blocco. Appena fuori dalla cittadina prende una via secondaria, che sale alla montagna. I banditi hanno fatto il piano di varcare l’Appennino e dunque, calati sull’altro versante, di far perdere le proprie tracce in quella ragnatela di strade e stradine che è il Montefeltro, dove hanno un covo sicuro. Al volante c’è Robby (il suo nome, Roberto, gli suona banale). È il più giovane, ma anche prepotente e deciso, e dunque è il capo. A fianco ha Nanni, con qualche anno di più. È detto Nasogobbo, perché ha fatto il pugile: tre incontri e ne ha avuto abbastanza. Il più anziano, trentasettenne, è Giacomo; ma siccome fin da bambino lo hanno preso sempre in giro con la storia delle gambe che fanno Giacomo Giacomo, ora si fa chiamare Ringo. Il nome è tutto: Ringo incute rispetto, specie da quando lui si è allungato le basette.

A pochi chilometri sopra Bramasole, su un lento declivio, fra abetaie e prati c’è una casa piuttosto antica, tutta di pietra; dietro ha il fienile, pure di pietra, e un grande ovile, più recente, di mattoni a vista. Ci abita Pietro con la figlia Mara. Pietro è un pastore con una sessantina di pecore. Non si lamenterebbe di come va la vita, se non fosse che da cinque anni gli manca la sua Clorinda e, soprattutto, soprattutto per quella figliola, che non ha tutti i suoi giorni. E dire che quando nacque la gente saliva fin lassù per vederla… Poi, col passare degli anni si è visto quant’era limitata. Proprio perché si è fatta una gran bella figliola, formosa, con quel cespo di capelli ricci e color miele, dimostra vent’anni, ma ne ha solo diciassette. E proprio perché ha delle attrattive e al contrario ci sta poco con la testa, Pietro se la tiene sempre vicina. Non gli sono sfuggite, portandola in paese o anche a Sansepolcro, le occhiate rapide e penetranti dei giovanotti, e più lunghe quelle retroattive. Finché è con lui sta al sicuro, e lei è abituata alla solitudine; anzi, era a scuola che ci pativa, con tutte le malignine e quei sorrisini di compatimento. Pietro pensa spesso alla sua sorte, quando lui non ci sarà più. Rimugina di metterla dalle suore: le sta ammucchiando una bella dote.

Il pastore dà un’occhiata al cielo, è imbottito di neve. Se nevica di brutto, rimarrà isolato forse l’intero inverno, ed è bene avere la casa rifornita di tutto. Così, avverte la figlia che starà via due o tre ore e che deve tenere le pecore al chiuso. Mara è davvero una bella figliola. Anche vestita modestamente, da casa, è una bambola. Pietro non vuole che dia nell’occhio, per non attirare mosconi, che le farebbero solo del male. Ma anche se vive là isolata, vuole che vesta con dignità, che sia precisa, che — è una fitta pensarlo — non sembri una ciucchina. Mara si deve sentire normale, e se non ha nessuno d’intorno, almeno lo appare. Se avesse un po’ più di testa, gliela avrebbero chiesta in moglie tutti i migliori partiti dal monte fino a valle... È andata così. Pazienza! La sua Clorinda ci si è limata la salute fino alla bara. Lui deve vivere per Mara, campare il più a lungo possibile. Per lei.

Ora Pietro è sul suo vecchio furgone, sta percorrendo la stretta via tutta curve per Bramasole. È una discesa brutta e ci vuole testa a guidare, specie alle curve a tornante. A un tratto gli sfreccia accanto, quasi lo sfiora, un’automobile con due o tre uomini, che pare faccia un rally. Accidenti, son matti? Dove corrono in una strada come quella? Ma forse hanno fretta per il tempo: se nevica fitto, il passo, lassù, fa presto a essere bloccato.

Arriva in paese. Se non fosse per il fumo dai tetti, un gregge di case fantasma. Dopo un’ora, al consorzio montano Pietro ha caricato il furgone di ogni bendiddio: ci potrebbe mettere un banco al mercato. Si sofferma a parlare col gestore, Agostino, che fa da imbuto a tutte le chiacchiere e le notizie della zona. Le ultime sono che la vecchia Grigia si è rifatta viva, ora sola ora con un piccolo branco, e che hanno sgozzato almeno venti pecore, di qua dall’Alpe della Luna. Fanno così i lupi: scannano un intero gregge, oltre l’immediato necessario, e poi tornano alla dispensa per molti giorni. Le pecore, s’intende, che riescono a nascondere. I pastori sono indennizzati dalla Regione, ma ai lupi sparerebbero ugualmente con grandissimo piacere. Questa protezione non la capiscono, e intanto quelle bestiacce stanno crescendo come la gramigna. Pietro dice che il suo gregge è al sicuro, al chiuso, e che ha il fienile pieno. Ha poi due maremmani, col collare chiodato, che farebbero paura al diavolo. E poi, se vengono, i lupi, lui gli spara… Lassù dove abita, specie d’inverno, ce li vuole i guardiacaccia a controllare…

Don Bruno da dietro i vetri ha veduto passare il vecchio furgone di Pietro; sa dove va. Datogli il tempo di fare spesa, esce di canonica per salutarlo: gli è molto attaccato, per la morte della moglie, per la disgrazia della figlia. In montagna la vita è già dura di per sé, figuriamoci con una creatura poco normale. Il prete ha sessantadue anni, è segaligno e robusto, ma patisce il freddo; si è coperto col suo cappotto nero, tutto avvolto nella sciarpa nera, col basco nero. Trova Pietro sulla soglia, che sta per andarsene. “Come va, Pietro?”

Non c’è male, grazie.”

E la nostra Mara?”

Eh, si tira avanti.”

Ci vedremo a Natale?”

Se la neve non fa i coltroni sulla via, senz’altro. Ma promette male, guardi il cielo.” Intanto passa anche Girolamo, un altro allevatore. Chiede a Pietro se sa della vecchia Grigia. Insomma, entrano tutti in bottega a tirar di chiacchiere.

L’automobile coi tre, che va sparata, di colpo frena a un bivio. Il cartello indicatore è stato tolto, c’è il palo e basta. (Tutto arrugginito, dev’essere cambiato; ma non c’è fretta, da quelle parti tutti sanno le vie.) I tre bestemmiano. Hanno già percorso quella strada un mese avanti, in preparazione al colpo, e quel dannato cartello c’era; ma ora non si ricordano se la direzione giusta è a destra o a sinistra. Ce l’hanno con sé stessi e col mondo. Bestemmiano urlando, specie Robby. Le due vie sono grandi uguali. Dovrebbe essere quella a sinistra a passare il monte. Robby sa che l’indecisione è il peggior partito: schiaccia l’acceleratore e la imbocca. Fatti in un baleno trecento metri, un altro bivio: stavolta due stradine. Ha imboccato la strada sbagliata! Vomita bestemmie. Ma lì, stretti dagli alberi, non si può voltare. Bisogna proseguire, trovare uno spiazzo. Ci dev’essere uno slargo, l’aia di qualche casa! Sì, laggiù, sopra gli alberi sale un filo di fumo. Robby sgassa per quella stradina che si fa presto un viottolo, la macchina è frustata dalle frasche sui bordi. E piomba davanti alla casa di Pietro. La via finisce. Ma anche lì c’è poco spazio. Robby, che si crede un guidatore in gamba, fa manovre scattanti, mal misurate. Sbanda, scivola all’indietro sull’erba alta e fradicia. Maledetta! Stramaledetta! La macchina si è infossata di dietro.

A quel rumore rabbioso, Mara esce sulla soglia, guarda attonita. Sono scesi tre uomini. Gente mai veduta. Perché fanno così? Sono proprio arrabbiati. S’intimorisce, rientra e chiude l’uscio, come le ripete suo padre.

I tre stanno là, imbestialiti. Hanno veduto la ragazza (bella ragazza).

Robby si dà una calmata. Va verso la casa e la chiama: “ehì, signorina, per favore, c’è qualcuno in casa che ci può dare una mano? Magari con un bue, un asino.”

Mara apre la porta, sta là incorniciata, li fissa e non apre bocca.

Ehì, dico a lei! C’è nessuno che ci può aiutare?” Robby è spazientito, guarda i suoi e dice piano: “ma che è scema, quella? Non parlo chiaro?”

Nasogobbo con la sua faccia da diplomatico dice: “ci vuole tatto, son montanari, ci parlo io… Signorina, ci servirebbe qualcosa come un tappeto, una stuoia, da mettere sotto le ruote, che così non fanno presa… Anche una vecchia tovaglia. Gliela paghiamo bene!”

Mara non si è mai trovata in una situazione simile, è molto intimorita, ma pure vorrebbe aiutarli. Tace, ha quasi il respiro grosso.

Ma quella lì che gioca alle belle statuine?” fa Robby. Allora le vanno incontro tutti e tre. Mara ha la mente bloccata, non sa trattare con quegli sconosciuti. I maremmani, chiusi nello stanzino che immette nell’ovile, hanno preso ad abbaiare, sempre più furiosamente.

I tre uomini le sono entrati in casa, lei ha dovuto spostarsi. La ragazza evidentemente è ritardata. “C’è nessuno?” chiamano più volte.

Con un filo di voce lei dice: “non c’è nessuno, il mio babbo è sceso in paese.” “Finalmente hai parlato!” esplode Robby. E quindi: “non saresti per niente male…”

Ringo, che lo conosce bene, taglia corto: “su, Robby, sbrighiamoci, cerchiamo un tappeto e filiamo!” Trovano quello di salotto, tutto sbiadito e sfilacciato, che è il lusso di casa. Prima di uscire con quel rotolo, Robby dà un’occhiata lustra e cattiva a quella figliola tutta rientranze. Sibila: “mi devo togliere una voglia, tanto è scema e non saprà nemmeno che dire.”

Ma sei matto?! Siamo inseguiti e ti metti a sgallettare?!” Nanni e Ringo insistono, non lo capiscono, è il solito sbruffone. Ma lui ha il diavolo addosso, quella carne calda e soda lo attrae irresistibile. L’afferra per le braccia e la stende sul divano. Mara non capisce, ma poi grida, si mette a piangere, strilla terrorizzata.

Robby, invece di desistere, gli fa ancora più gola. “Tenetela, dannazione!” Dà ordini secchi. “Tenetela per le braccia e le gambe!”

I due reagiscono: “piantala! scappiamo!” Lo offendono pure. Lui, indiavolato, tira fuori la pistola e con voce raschiante grida: “fate come dico io e ce la filiamo a minuti!” Accade quindi il peggio. I due si scambiano un’occhiata vigliacca, e poi, per finirla alla svelta, afferrano uno le gambe, l’altro le braccia. Ma la faccia urlante di lei non si può sopportare. Robby le ficca in bocca un fazzoletto. Ringo deve girare il capo; così almeno non vede, ma quei gemiti soffocati lo straziano, e le mani di lei — lui le serra poco sopra i polsi — gli stringono le sue: quasi ad afferrarsi, a chiedere soccorso. Ringo si sente una merda, non avrebbe mai creduto di finire così… Da ragazzo serviva Messa, Giacomino.

Nasogobbo invece guarda, quasi sorride, ma fa per darsi un atteggiamento. E dire che ha fatto il pugile! A che punto s’è ridotto! Non è un sorriso, è una smorfia mascherata.

Mara avverte una gran fitta all’inguine, non capisce cosa le fanno. Sì, sa cosa fanno i montoni e le pecore, ma lei non è una pecora. Ora non grida più, mugola e piange e si lamenta. Pochi minuti estenuanti. Poi Robby si rialza, si tira su i calzoni. Pare soddisfatto. I due nemmeno lo guardano, nemmeno tra loro si guardano, torcono di continuo gli occhi. “Occhèi,” fa il capo, “pigliate il tappeto e via.”

I tre se ne vanno. — Hanno rubano il tappeto di salotto! — pensa Mara, denudata a metà. Questo la preoccupa. Sta lì sdraiata, tremante, sbalordita, dolorante. I cani, dietro casa, abbaiano e ringhiano per dieci, raspano all’uscio come pialle.

Piazzato il tappeto sotto le ruote posteriori, Ringo e Nanni spingono da dietro. Robby dà tutto gas, esagera come la solito. “Pigia poco!” gli urla Nanni sfiatato per lo sforzo. “Non fare così! Le ruote slittano!” Ma Robby sa lui come fare, i consigli lo fanno stizzire, specie di quel rintronato di Nasogobbo. Sgassa a tavoletta. Siccome i due dietro, ruggendo per lo sforzo, ce la mettono tutta, la macchina fa un balzo e piomba sull’altro lato, va tutta giù col muso nella fossa. “Maledizione!” fa Ringo. “Non sai guidare, e ti dài tant’arie!” fa Nasogobbo, e gli va incontro con un’aria da ring. Robby si sente in torto marcio, sta zitto. Non ammetterà mai di avere torto, ma proprio per questo è pronto a sparare. Tira fuori la pistola. Tutti ammutoliti. È inutile litigare, peggiora la situazione.

Vanno in fossa a vedere. Bestemmiano. La calandra ha sbattuto su un tronco, si è sfondata, butta acqua e vapore. Riversano dalla bocca come fogne tutta la rabbia che hanno in corpo.

Sei un cretino, due volte!” scoppia Nasogobbo, e gli mostra il pugno professionale. “Prima con quella ragazza, e ora con questa! Sei un bastardo cretino!”

T’ammazzo! T’ammazzo!” urla ringhiando Robby e gli caccia la canna sotto il naso. “Ritira o t’ammazzo! Ritira o t’ammazzo!”

Ma siete ammattiti!” s’intromette Ringo. “Avete perso il cervello! Quello che è fatto è fatto! Cerchiamo di rimediare. Metti via la pistola, ché tra poco ci sparan tra le chiappe!” Guarda l’automobile. “Siamo sistemati,” scuote la fronte sconsolato. “E ora che si fa?”

Nessuno sa che fare, che dire. Altri automezzi là non ci sono. Robby alla fine dice, modesto ma deciso: “aspettiamo che torni il babbino e gli prendiamo il mezzo. Li leghiamo per bene e abbiamo tutto il tempo per filarcela.” Pare l’unica soluzione. Violenza dopo violenza. Ma non c’è altra soluzione. Sono tutti in tensione. Aspetteranno. Esasperato da quel continuo abbaiare, Robby tira fuori la pistola: “ora vo là e li fo secchi, non ne posso più!”

Ci manca pure che ti metti a sparare!” fa Ringo. “Per queste valli ti sentono fino a Sansepolcro!” Ha innegabilmente ragione.

Aspettiamo il montanaro,” conclude Nasogobbo, quieto. Tra loro è riaggallato l’accordo. La vista del sacco li acquieta.

Mara intanto si è alzata. Il grembo le fa parecchio male. Si tocca sotto, e la mano ne esce sanguinante. Mugola dolorante, impaurita. Dopo il gran rumore di motore, pensa che quei tre se ne siano andati. Esce sulla soglia. E vede la macchina ritta a capo in giù nella fossa, e quei tre che sbraitano, bestemmiano. E quello che le ha fatto male agita la pistola. Subito richiude la porta (ansima), mette la sbarra. Quei tre, imbufaliti, nemmeno se ne accorgono. Mara esce dalla porticina posteriore, va all’ovile e apre ai cani inferociti, ma li trattiene a forza per il collare. Quegli uomini malvagi hanno pistole, potrebbero ammazzarli. Trascina e spinge le bestie in casa: con quelle lei si sente più al sicuro. Va nel bagno. Si lava l’inguine, che sanguina ancora. Le rimangono in mano dei grumi scuri. Si asciuga e si mette un fazzoletto nelle mutande, come se avesse i mestrui. Poi si sdraia sul divano. Quando arriva il suo babbo? Ed ecco, un pensiero lucido e terribile: quei tre aspettano suo padre per prendergli il furgone! Di certo lo ammazzano, e ammazzano anche lei! Deve fare in modo che quei delinquenti se ne vadano prima che lui arrivi. Allora nella sua testa confusa appare una luce. Suo padre ha dimenticato il cellulare sulla madia. Lei sa che in quell’avvallamento non funziona e che Pietro per chiamare deve salire sul costone, che solo lassù l’apparecchio funziona. Ma quei tre mica lo sanno! I cani abbaiano là alla porta sprangata.

Mara sale le scale, va in camera, che dà sul davanti, apre la finestra. Grida per richiamare quei farabutti: “ehì! Ehì!” Laggiù i tre, sorpresi, si girano, pensano: — che vorrà quella matta?

Mara mostra a braccio teso il cellulare (spento) e urla: “ho chiamato le guardie! Hanno detto che vengono e vi arrestano!” Lo ripete una, due volte, agitando il cellulare. Quei tre ci restano di sasso: sarà anche matta, ma ha tutta l’aria di fare sul serio. E quel continuo ringhiare, ora da dentro la casa, non mette certo tranquillità.

Dirà sul serio quella?” si dicono. “Sarà anche scema, ma ci sta che il padre le abbia insegnato a chiamare aiuto, quassù da sola…” Là dentro non vogliono più entrare: il portone chiuso, quei cani inferociti.

Io,” fa Nasogobbo, “direi di telare, perché la polizia è allertata e ci sta che piombi quassù a minuti!”

Robby si arrovella; tacitamente ora accetta il suo consiglio. Dice: “sì, è meglio non rischiare, filiamo! L’automobile, tanto, è rubata, a noi non risalgono. Per la strada normale non si può andare, gli sbatteremmo in faccia.” Si guarda intorno. “Prendiamo per quel viottolo, che va al monte. Ci sono quattro, cinque ore di luce. Se ci diamo sotto, ce la facciamo, troveremo un casale, un mezzo, qualcosa!”

Gli altri due capiscono che il piano è disperato; ma non ci sono alternative. E quella matta che grida ancora alla finestra! Gli verrebbe voglia a tutti e tre di sparare a quella scalmanata, se non fosse per il rimbombo. Prendono il sacco con i soldi e infreddoliti iniziano a scarpinare. Subito l’abetaia li inghiotte. E inizia a nevischiare, fitto e fine. Ci mancava anche questa! Ansimano. Dapprima bestemmiano, due passi e un moccolo, poi gli manca il fiato. Salgono ansimanti, in silenzio.

Pietro intanto è sulla via del ritorno. Ha fatto tardi a chiacchierare, la sua Mara sarà in ansia. Ma anche lui vive quasi da eremita e due parole da cristiano gli ci vogliono ogni tanto. Con la figlia lui parla, ma più che altro le dice che fare, non ci scambia un’opinione. Povera Mara, e povero lui. Dopo il secondo bivio, ha imboccato il sentiero, che folto com’è di piante è già imbrunito. Ed ecco, arrivato, si trova quella macchina per metà di traverso. Che è successo? Subito preoccupato. Il portone laggiù è chiuso. Perché i cani abbaiano in casa? Pensa al peggio. A stento riesce a passare oltre l’automobile, senza finire anche lui nella fossa di destra. Ora è fermo davanti il portone, scende, chiama più volte: “Mara!” a piena voce.

Lei si affaccia dalla camera. Meno male sta bene! Mara scende, gli apre, i cani quasi lo fanno cadere. Pietro vede la figlia in un brutto stato. Lei gli racconta a pezzi e a bocconi, come sa, come può, quanto è accaduto… Ora piange a dirotto, finalmente si sfoga. Il babbo l’abbraccia, la consola, la porta in casa. Capisce che sono stati i tre farabutti che ha incrociato quando scendeva, l’automobile è quella. Ma perché si sono spinti fino a casa sua, tra i boschi? Sotto ci dev’essere qualcosa di grosso. Intanto la sua Mara ha bisogno di cure: ha la veste schizzata di sangue. Povera figlia sua! Le dice di star tranquilla, che va a chiedere aiuto. Si chiuda in casa.

Lui prende il cellulare e di corsa fa cento, duecento metri, sale sul costone. Di lassù si vede anche il paese, anche Sansepolcro in lontananza. Ora il cellulare funziona. Ha il numero di don Bruno. Al prete, sorpreso di risentirlo, dice affannato che cosa ha trovato a casa, che pensi lui a chiamare la polizia, un’autoambulanza. Il prete è sbalordito, ma lo rassicura: “ci penso io, Pietro, non dubitare! Tu bada alla bambina, poverina! Chiamo il maresciallo e vengo con la moto. Porto Tonella, è bravissima in queste cose!”

Detto fatto: avverte i carabinieri, che intuiscono chi siano stati i mascalzoni. La perpetua al fattaccio è allibita. Va a infilarsi i pantaloni, mette la scatola del pronto-soccorso nella borsa a tracolla, che l’ha accompagnata per tante nascite. Don Bruno, ben coperto e con gli occhialoni, ha già messo in moto la vecchia Guzzi. Partono sparati, facendo dietro un gran fumo.

Pietro, tornato a casa, va là all’automobile, studia il terreno. Scorge sulla fanghiglia le impronte di tre uomini: hanno preso il viottolo per la montagna. Sono disperati e armati, pericolosissimi. Potrebbe aspettare le guardie, ma intanto quelli chissà dove arrivano. No! Gliela vuol far pagare a chi ha straziato la sua bambina. Torna in casa, reprime la rabbia per non inquietare Mara più di quanto non sia. Le dice tranquillo di aspettare don Bruno e Tonella, che arriveranno a momenti. Lei stia lì in casa coi cani, stia tranquilla. Scrive su un biglietto: vo dietro a quei maledetti su per il monte, Pietro. Lo chiude in una busta e ne lecca la colla. “Dallo a don Bruno.” E a lei, che qualcosa intuisce, non lo vuole mandare: “sta’ tranquilla, gli vo dietro a distanza, per non perdere le tracce! Sta’ tranquilla, amor mio. Tu intanto di’ le preghiere.”

Senza farsi vedere prende il fucile da caccia, lo zaino, che riempie di tutto quanto si porta dietro un pastore e altro ancora: cioccolata, zucchero in zollette, una bottiglia di grappa, una corda, candele, fiammiferi, un coltello, una piccola accetta, tante cartucce a pallettoni… Prende anche la sua vecchia coperta militare e ce l’arrotola sopra. E a passo di montagna, corto e rapido, imbocca quel sentiero. Il nevischio, infittito, tintinna contro le canne del fucile, batte attutito sul suo cappello di feltro. Prima che il bianco ricopra le impronte, deve agganciarli. Comunque, non sarà difficile ritrovare le loro stampe sulla neve non appena è rialzata. Pietro conosce quei boschi da una vita e quei delinquenti nemmeno sanno dove andare. Entro un’ora saranno stremati, ghiacciati, affamati. Stringe il calcio del fucile, mentre lo pensa.

Molto più in su, i banditi, accecati dal nevischio, con abiti inadatti, sono stracchi e smarriti in quel bosco che si va imbiancando di minuto in minuto. Capiscono che devono salire parecchio per varcare il crinale, e il sentiero è sempre meno visibile. Con quel bianco dilagante, tutto si fa uguale a tutto.

Dannazione! Dannazione! Ci mancava anche questa!” Se lo ripetono a denti digrignati.

Che si fa? Che si fa?”

E che vuoi fare? Torni indietro a chieder soccorso?”

Ma fra tre quattr’ore farà buio, e qua nel bosco anche prima!”

E allora?!” Sono questi i discorsi, sfiatati, e il vapore che esce di bocca e si dissolve in aria li fa apparire futili.

Ringo, che leggiucchia i giornali e non solo di sport, mormora: “pare che ci siano i lupi anche da queste parti…”

Se vengono quei bastardi,” ridacchia rabbioso Robby, “gli fo un clistere di piombo,” e si palpa la tasca con la pistola.

La neve intanto cade a larghe falde, tutto è bianco, un bianco gelido, non si scorge più nulla di preciso.

Dopo un quarto d’ora, “basta,” dice sfiatato lo stesso Robby, “così non si può andare avanti. Tanto, con questo tempo, sono cessate anche le ricerche della polizia… Anzi,” fa speranzoso, “per noi è una fortuna che nevichi.” Tutti e tre ci vogliono credere a questa fortuna, ma Nanni e Ringo si scambiano un’occhiata avvilita. “Bisogna trovare un buco per ripararci,” parla deciso Robby: è di nuovo il capo.

Non sono passati venti minuti da quando Pietro ha imboccato il sentiero, che don Bruno e Tonella, accecati dal nevischio, arrivano alla casa. Vedono l’automobile di traverso, e poi il furgone. Chiamano entrambi a gran voce. Mara le riconosce quelle voci, subito spalanca la porta. Tonella l’abbraccia: “povera cara! Povera cara! Vieni, fammi vedere.” La conduce al bagno.

Don Bruno si scuote il nevischio di dosso, si sfrega le mani. Va al mobiletto — conosce bene l’ambiente — e ne prende una bottiglia di vinsanto: ha bisogno di scaldarsi, tanto più che il fuoco in cucina si è spento. Ma Pietro dov’è? Solo adesso, sfreddolito, ci pensa.

Nel bagno Tonella ha convinto Mara a farsi vedere. Mara con Tonella non ha ritegno, la considera un po’ una mamma; altre volte le ha dato buoni consigli, quando si è fatta donna. Tonella vede che le ci vorrebbero dei punti, perché è lacerata; ma non glielo dice per non inquietarla più di quanto già non sia. La medica come può, poi le mette una garza tra il corpo e le mutande.

Ed ecco don Bruno bussa, chiede: “Mara, scusami, ma babbo dov’è finito?” Ha un brutto presentimento. Mara da dietro l’uscio risponde: “me n’ero scordata…Vi ha lasciato una busta con un biglietto…” Il prete torna in salotto: non vede foglietti. Cerca. Torna all’entrata: è sulla mensola presso l’attaccapanni; come ha fatto a non vederla prima? Legge: inorridisce. Pietro gli va dietro per vendicarsi. Torna al bagno, chiede con noncuranza: “Mara, dov’è che babbo tiene il fucile? Voglio vedere com’è, me ne voglio comprare uno uguale.” Tonella capisce, le vengono i brividi, ma tace.

È appeso nello stanzino.” Pietro ce lo tiene sempre scarico, ha paura che alla figlia non venga qualche strana idea.

Il prete ci va: non c’è. “Sant’Iddio! Gesù Giuseppe e Maria!” Pietro in quei boschi è un animale stanziale: li scova e li ammazza come lepri! Deve inseguirlo, fermarlo. Va al bagno, chiede a Tonella di uscire (da sola). Le dice a voce bassa l’accaduto. Lui deve andar dietro a Pietro, fermarlo a ogni costo. La perpetua: “ma è ammattito, con questo tempo? Non è nemmeno coperto abbastanza! E poi dove va? Viene già a catafascio, non si vede la punta dei piedi!”

Ma il prete è deciso: “tu sta’ qui, aiuta Mara. Penso che con questa neve la polizia e l’autoambulanza non arrivino, o che arrivino con un gran ritardo. Accendi il fuoco, insomma manda avanti la casa. Io torno entro un’ora al massimo. O anche due. So badare a me stesso.” Lo dice che non c’è da ribattere, Tonella sa bene che è una testa dura. Don Bruno prende all’attaccapanni un vetusto mantello nero, lo indossa. E sparisce laggiù per quel sentiero.

Robby Ringo e Nasogobbo sono stremati, ghiacciati, affamati. Si butterebbero nelle braccia della polizia per una buona cella riscaldata. D’un tratto escono dal folto, hanno davanti un prato circolare, circondato dagli abeti, e proprio di faccia, dall’altra parte, una capanna di legno. Finalmente! È uno di quei rifugi estivi per i pastori, ora chiuso e sbarrato. Vanno là — lasciano impronte profonde e nette nella neve alta quattro dita — e pigiano, e sfondano la porta. Dentro c’è il minimo necessario: due brande con materassi rinsecchiti, un tavolincino, e accanto al focolare di pietra un mucchietto di legna avanzata. Ne fanno una catastina ritta, l’accendono bruciando delle banconote da dieci euro: una, due, sei, sette, dodici… Al diavolo, basta che la legna bruci! Infatti la fiamma sprizza, crepita, divampa. “Era ora!” Ridono, tutti contenti, gli sembra d’essere in paradiso.

Pietro, pochi minuti dopo, è là fuori. Seguire le orme è stato uno scherzo. Ora portano dritte là, alla sua capanna. Li ha sempre fra i piedi, quei farabutti, ancora in casa sua. Stavolta sono ingabbiati. Lui resta al di qua dello spiazzo, infrascato. Per ben mimetizzarsi, si accuccia, si copre fin sul capo con la coperta. Che infatti in pochi minuti è tutta bianca: non si scorgerebbe da cinque metri. Carica il fucile. Mangia molti quadretti di zucchero, butta giù due sorsate di grappa. — A noi — pensa con tranquilla ferocia.

Il fumo azzurrino esce gagliardo dal camino. Pietro si vede ora piumoso di neve, è l’uomo invisibile. Grida con quanta voce ha in corpo: “ehì voi tre! Canaglie! Uscite fuori a mani alzate!”

A quella voce schiantata e dura Robby Ringo e Nasogobbo rimangono ingessati. Chi sarà mai?! Chi può averli già raggiunti? Non sono le forze dell’ordine: figuriamoci, fin lassù e subito! “Dev’essere il babbo della scema…” dice Robby. E dopo averci ben pensato: “bisogna scovarlo. Datemi i soldi.”

Che vuoi farne?” chiede preoccupato Nanni.

Gli do l’ésca. Se li accetta, meglio per lui e per noi. Se no, lo freddo.” Gli vien da ridere. “Con questo freddo!...” Son queste battute che lo distinguono come capo.

Ma si tratta di ammazzare, questa volta, di sparare sul serio. Finora nessun dei tre ha mai sparato a una persona, solo a bottiglie e barattoli in un cascinale abbandonato, che chiamavano O.K. corral, dove si sfidavano a chi tirava meglio. Ringo e Nasogobbo si guardano di sguincio: stavolta si tratta di ammazzare sul serio! Anche Robby non ha mai ammazzato nessuno, ma siccome è lui il capo… Meno male tocca a lui! Ma la cosa va precipitando in peggio, sempre in peggio… Da una rapina “da manuale” (“cinque minuti e siamo ricchi”) si è passati a uno stupro, e ora a un omicidio: se li pigliano, la galera sarà il loro gerontocomio.

Robby ha cavato dal sacco una grossa mazzetta. Ha la pistola nella tasca destra. Apre lentamente l’usciolo. Là fuori non si vede che bianco bianco bianco… Eppure, dalla voce, è a meno di venti metri. Si guarda intorno, a centottanta gradi: niente. “Dove sei?” grida.

Pietro non vuole scoprirsi. Deve prima fargli gettare le pistole, a tutti e tre. Grida, ma girando la testa di lato: “gettate tutti e tre le pistole, uscite fermi e schierati!”

Robby sorride, dice con sicumera (sforzata): “beh, ora non esagerare… Possiamo accordarci. Lo so, abbiamo esagerato, e ci dispiace, davvero… Ma possiamo ripagare il torto. Siamo gente ragionevole, no?”

Nessuno risponde. Quel silenzio è minaccioso più di ogni parola. E intanto nevica, nevica. Robby continua, infastidito: “senti, guarda qui questo mazzo. Son tutti pezzi da duecento, una fortuna. Non ne hai mai visti tanti né mai più li vedrai. Per quella ragazza sarà una fortuna…” E dopo una pausa, dice piano ma con cattiveria: “tanto, non l’avrebbe mai presa in moglie nessuno…”

Per Pietro è una pugnalata. — Io ti ammazzerò, cane! — gli guizza dal cervello come un coltello a scatto. Dice più calmo che può: “vieni avanti, a diritto. Fammi vedere. Però tieni i soldi con tutte e due le mani.”

Robby si sente furbo, obbedisce. Pensa: — non appena ho chiaro dov’è, glieli butto, e mentre si china a pigliarli, lo stendo. — Mentre avanza a diritto, parla per rassicurarlo: “vedi, che ci si mette d’accordo… È stata una disgrazia in fondo, ci spiace…” Ma dov’è? Deve farlo parlare, per vedere da dove viene la voce. Dice: “senti, ora io te li porto, ma dimmi dove sei… Eh, sei proprio in gamba, ma se non ti vedo a chi li do?” Senza saperlo, è appena a sette passi da Pietro. Che aveva già alzato i due cani del fucile: lo tiene ancora nascosto, attendato sotto la coperta imbiancata.

Robby, avanza sempre più piano, si ferma, si guarda un po’ a destra, un po’ a sinistra, e dice: “allora, dove diavolo sei?” Non ha finito di dirlo, con la faccia appena rivolta a sinistra, che Pietro gli scarica sul viso due colpi appaiati. La botta dei pallettoni è tale che, di mezzo profilo, gli portan via la faccia: come se un artiglio d’acciaio gli strappasse una maschera viva, e sotto c’è il teschio carnoso, maciullato, che subito schizza e gronda sangue.

Robby dal colpo barcolla gira su stesso due volte, crolla voltato alla capanna, con la faccia affondata nella neve. I due dentro urlano, urlano forsennati. La scena è stata improvvisa e infernale: Robby, senza faccia, ma con gli occhi ciondolanti ha guardato verso di loro, e gli è scoppiato il sangue sulla carne viva. Terribile! Terribile! La maschera di pelle, sfilacciata, è volata lì davanti l’entrata: una smorfia satanica.

Robby è ancora vivo, con la faccia di carne viva nella neve, mangiata dal freddo. Un alone di sangue gli si sparge intorno alla nuca, la sola parte del capo che emerge. Fa per muoversi, ma lo spasimo è tale che si irrigidisce, e la neve gelata un poco gli lenisce l’orrendo dolore. Mugola soffocato, con la bocca slabbrata contro la neve.

Ringo e Nanni gridano, ansimano d’orrore. Ringo richiude la porta. Dice a Nanni: “quello non perdona! Quello ci vuole scuoiare vivi, è un pastore! Dannazione a Robby, glielo avevo detto di filare! Ma lui no, maledetto fra le gambe! Sempre strafare!”

E ora che si fa?” chiede infantilmente Nasogobbo.

Il doppio colpo, in quel silenzio immenso sterminato soffice, è arrivato agli orecchi di don Bruno. Paralizzato. Troppo tardi. È successo. Chi sarà stato? Un colpo non da pistola, crede, troppo forte, troppo aperto. Pietro ne ha ucciso uno. “Dio mio! Dio mio, fermalo Tu!” Prende nella direzione dello sparo, stringe il rosario e prega ansimante, affondando per la salita innevata. Prima era una figura tutta nera, ora è tutta bianca.

I due tra un tintinnio di denti hanno deciso. Si spartiscono alla brava il denaro — gli tremano le mani, — se n’empiono le tasche, tutte le tasche. Usciranno insieme, all’improvviso, urlando e sparando là davanti — è là davanti, infrascato, quel selvaggio — e poi uno a destra, uno a sinistra, si salvi chi può. Se per caso riescono a beccarlo, allora fuggono insieme. Mentre si preparano, respirano a fondo, una, due, tre volte, col cuore che scoppia. Ognuno stringe la pistola a due mani, che tremano: non son veri banditi, lo sanno bene, son due buffoni di paese capitati a recitare una tragedia. Ringo, di colpo, lo abbaglia un pensiero: — me lo diceva nonna, non frequentare quei ragazzacci! — Ora è troppo tardi. Magari ci fosse la polizia: si arrenderebbe docilmente, dolcemente. Nasogobbo pensa che questo è il suo incontro peggiore: o la va o la spacca! Se riesce a cavarsela, farà un mestiere onesto. Andrebbe anche a pulire i cessi. Si guardano l’un l’altro: uno sguardo pietoso e terribile… Ora!

Irrompono fuori urlando e sparando all’impazzata, nemmeno sanno dove. Ma l’azione riesce. Pietro non se l’aspettava. Si è buttato a terra tra le pallottole sfrascanti sopra e intorno a lui. Ringo a sinistra, Nanni a destra. Scappano. Ecco che Pietro si riprende — è intorpidito dal gelo — spara a uno e poi all’altro. Ma ormai sono imboscati.

Tutto questo sparare paralizza don Bruno: ha distinto le pistole, il fucile. E poi un silenzio, letteralmente, di tomba. Che siano tutti morti?! Ha i brividi, procede senza slancio, padrenostri e avemarie gli escono sfilacciati di bocca, una continua nubecola di fiato. Le gambe gli tremano, ma ora più che mai va avanti.

Pietro si decide. Andrà dietro a quello che ha preso su per la montagna; andrà più lento e non conosce i sentieri, ma potrebbe farcela a dileguarsi. Quello che ha preso verso il basso, torna indietro, ma eviterà la casa, e forse cadrà da sé in mano alla polizia.

Dunque — per magia ha smesso di nevicare — il pastore segue le peste, profonde e nette, di Nanni. Che affannato, terrorizzato, corre ansimante fra la ramaglia che gli frusta la faccia. Deve correre, non fermarsi mai. Ma si blocca qualche istante, il cuore gli scoppia: silenzio assoluto, solo il tum tum nel petto. (Dietro le frasche innevate due tondi occhi gialli lo stanno fissando.) Si chiede se il pastore stia inseguendo Ringo. Riprende a salire, ma con passi disfatti. Che giornata è stata! Le gambe non lo reggono più, e dire che ha fatto il pugile… Deve andare d’intestino: mai avuta tanta paura. Non può trattenersi. S’infrasca un poco. (Ma chi potrebbe vederlo?) Mentre si lascia andare, ode lì vicino guaiolare. Si tira su i calzoni, sfrasca lì in basso, incuriosito... Sono due cagnolini, due cuccioli carini… Che ci faranno là soli? “Vi prenderei se potessi,” dice con residua innocenza. Ma deve fuggire. Si volta e: fauci come coltelli gli saltano alla gola. Nemmeno emette un grido, ha la gola squarciata. Il suo ultimo lampo di pensiero: — pare che ci siano i lupi anche da queste parti…

La vecchia Grigia, afferrando per la gola il cadavere, lo trascina a sforzo da parte. Per un po’ i suoi cuccioli avranno di che sfamarsi. Ma è un film o è accaduto veramente? Se lo chiede, Nanni, lì in piedi, mentre osserva, più con stupore che con orrore, quello che fu il suo corpo trascinato nel covo: già i cuccioli, carini, leccano avidi il suo sangue. Nutrirà dei lupi! Chi lo avrebbe mai detto! E osserva la breve strisciata di sangue nell’assoluta purezza della neve: la sua esistenza è finita così, una pennellata di rosso in un quadro tutto bianco… È così bello! Pensa: — meno male è sangue mio, non l’ho fatto scaturire io. — È un pensiero che dieci minuti prima non avrebbe mai avuto. La constatazione lo consola. E si guarda le braccia, si tocca la faccia. Stranamente, trova ovvio di essere ancora vivo. Sente che lo è sempre stato: anche prima di nascere? Ma ora, ora non sa che fare. Sta lì in piedi, immobile. Ascolta il mordicchiare dei cuccioli, il rumore di ganasce della lupa che frantuma quel viso che fu suo..

Ringo scappa come un forsennato verso il basso, non segue un sentiero, sbatte fra i rami, inciampa, si rialza, corre come se cascasse a ogni passo. Dentro di lui scampana incessante una domanda: — ma che ho fatto? Che ho fatto? Che ho fatto! — Eppure sarebbe stato semplice fare una vita normale, con un lavoro normale… Magari sposato, con due bambini… — Che ho fatto! Perché l’ho fatto?! — E pensa a Robby, il grand’uomo, che li ha manovrati come burattini: basta una rapina e si campa da signori. Ma non può dare tutta la colpa a lui. Chi l’ha obbligato a seguirlo, lui, trentasette anni falliti? — Che ho fatto! Che ho fatto! — si ripete come una litania. E di colpo urta contro (non un tronco) un uomo! Don Bruno, che (ha subito intuito chi sia) lo ha visto arrivare come un dissennato, lo ha atteso a piè fermo.

Il prete, con il rosario in mano, lo afferra per le spalle: “férmati! Férmati in nome di Dio!” Ringo è così rintronato che obbedisce come un automa. Ha la faccia stravolta. Ma in mano stringe la pistola. Non sa che fare, che pensare. Quell’uomo (ora si accorge che ha il collare bianco) non sembra volergli nuocere (è un prete) e lo stringe benevolmente. Ma che ci fa un prete lassù, in montagna, in un bosco, mentre nevica? No, di colpo ha smesso di nevicare: proprio mentre ha sbattuto contro il prete. Sta lì imbambolato, la faccia ebete. Ma questo riesce a pensarlo: — se sto con un prete quel selvaggio non mi spara.

Don Bruno lo guarda mite, per rassicurarlo. Dentro di sé dice: — Dio, Ti ringrazio che almeno questo non è morto. E speriamo anche gli altri. — Intanto gli toglie la pistola. Ringo se la fa sfilare di mano come se fosse un bambino. Il prete la getta lontano, sprofonda nel bianco: non esiste più pistola. Ringo rivede Robby senza più faccia: strizza gli occhi, digrigna i denti inorridito. E scoppia a piangere. Don Bruno lo stringe a sé, in silenzio. Ringo, da quando era bambino, nessun adulto l’ha più abbracciato così. E gli fa un bene immenso.

Pietro, passo passo, segue le impronte: si fanno diseguali nel ritmo, storte. Non ha fretta. Ma ecco si blocca: vicino a quelle del bandito, di pedina, ci sono quelle di un lupo, un lupo solo. Alza i cani del fucile, si gira intorno, con aperta attenzione d’occhi e d’orecchi. Ma sa di emanare odore, odore d’uomo, e che un lupo lo avverte da una distanza incredibile. Decide di fermarsi. Può incappare in un branco. Anche un piccolo branco può essere la fine. E quel tizio? Le orme di lupo che seguono quelle umane gli agghiacciano la schiena. Non sa se sparare, gridare, avvertirlo in qualche modo. Ma non è detto che il richiamo lo convinca, potrebbe pensare a un trucco. E perché darsi pena per lui? Rivede la sua Clorinda, la sua Mara violentata senza pietà. No! Stringe i denti rabbioso: si arrangi quel delinquente, vada incontro al suo destino! Gira i tacchi e torna alla capanna.

Quando ci arriva, ecco là il morto. Affondato nella neve a faccia in giù. A faccia in giù? Ma la faccia è là, verso la porta! È un carniccio violaceo, irrigidito. Orrendo. Di umano non ha più niente. Una smorfia infernale. La vedrà in sogno finché vive. Fa per andare. Ma… Gli si rizzano i capelli: quell’uomo è ancora vivo! Il suo groppone si muove impercettibilmente, a fatica. Gli si avvicina, che ha le gambe di legno..

Terrorizzato. Ha scuoiato decine di bestie, ma un uomo è un’altra cosa. Un uomo è sempre un’altra cosa. Che può fare?

Sta lì. A due passi. Fosse morto! Fosse morto sarebbe tutto risolto. Di fronte alla legge, ha sparato per difendersi (mica tanto, così lontano da casa). Ma ora che può fare? Perché non muore e la fa finita? — Te lo sei meritato, farabutto! — Lo vuol pensare, si sforza di pensarlo. No, ormai non è più un farabutto, è un disgraziato. Quello che ha fatto costui alla sua figliola è niente a petto di quello che gli ha fatto lui. Aspetta. Morirà a momenti. Deve morire a momenti! Lasciarlo lì? A farlo sbranare vivo dai lupi? No, sarebbe troppo. Un atto da lupi.

Aspetta. Si muove ancora? O non si muove? Sta lì, Pietro, paralizzato, più fermo di quel corpo a faccia in giù, affondata nel bianco, da cui emerge soltanto la nuca tutta alonata di sangue.

Infine si decide. Deve decidersi! Posa il fucile. Si acchina. Lo prende per una spalla e completamente lo rigira. Terribile! Pietro ha come una pedata in faccia, cade all’indietro. Un viso spellato, scortecciato, una maschera di carne viva e tutta grumi di sangue nero, raggelati, e croste di neve rossa. E da quelle che furono labbra e ora sono denti scoperti, digrignati, esce un filo di voce: “uccidimi… uccidimi…”

Pietro è irrigidito dall’orrore. — Che cosa ho fatto? — si chiede, — che cosa ho mai fatto? — Prova una pietà terribile, ha esattamente una voragine di pietà-orrore al posto delle viscere. Quell’essere umano e non più umano… Gli orecchi ci stanno ancora, ma gli occhi! gli occhi! Sono due palle che sporgono, come quelli di una bambola rotta. Fissano concentrici il candore infernale del mondo. Occhi che i suoi occhi non possono sostenere. Pietro è ipnotizzato dall’orrore: orrore generato da lui. Torce gli occhi. Ma quei globi di onice li ha dentro la testa. Si sforza, riguarda: filamenti di carne strappata, muscoli vivi, e quei denti, quei denti già di scheletro… Orrore!

Uccidimi, per pietà… Falla finita…” da quei denti digrignati, solo gengive e denti.

Fissare quella faccia scuoiata ha abolito il tempo. Quant’è che la sta a fissare? Non può aspettare che quel disgraziato muoia da sé. È un brandello d’anima attaccato alla carne viva. Non ce la fa a fissarlo, ma si sforza, si deve sforzare. La pietà per quell’uomo (è ancora un uomo quella poltiglia di carne e di ossa!) gli dà la forza, e solleva gli occhi invetriti. Il gelo ha fermato la sanguinazione. Può andare avanti per ore. Forse no, fa così freddo, morirà presto assiderato... Aspettare che assideri? Lasciarlo lì? Lì ai lupi? L’odore del sangue li attira da chilometri. Ci sta che arrivino, a minuti. Recidere il brandello d’anima, ecco.

E dalla chiostra infernale esce un bisbiglio rotto, più forte: “uccidimi!… Uccidimi!… Per pietà!…”

A Pietro di colpo traboccano lacrime, un flusso caldo dal bordo degli occhi. Ma subito si congelano, come stille cristalline attaccate alle gote, ai peli irti della barba di tre giorni. Casca in ginocchio, e bisbiglia all’uomo che ha odiato più di qualsiasi cosa al mondo: “perdonami… perdonami… perdonami…”

Uccidimi… Per pietà…” esala costui dai suoi denti scoperti, con un filo di fiato vaporoso. L’orrore vivente respira a fatica, ma con forza. Può andare avanti delle ore, tra sofferenze atroci. E presto verranno i lupi magnetizzati dall’odore del sangue, della carne viva. C’è solo un atto di pietà. “Dio mio, Dio mio, perdonami! Cosa ho mai fatto! Cosa mi tocca fare!” Lo dice, Pietro, distintamente, di fronte al mondo intero. Quegli occhi rotondi e oscenamente sporgenti, spellati, si girano un poco verso di lui: orrore e riconoscenza.

Pietro prende a giumelle la neve, tanta neve, e la comprime su quel viso disumano, un viso che si ha tutti sotto la pelle, la comprime in modo che al posto della faccia scarnificata c’è come un uovo. Ci si appoggia con le mani, finché il torace non manda due o tre sussulti violenti. E poi sta fermo, irrimediabilmente immobile. — È fatta — pensa Pietro. L’averlo detto gli pesa addosso come una pietra tombale.

Sta ancora lì, sopra di lui, imbambolato, tutti e due immobili. Poi, con tutte le sue forze, completamente disfatto, si solleva in piedi, oscilla come ubriaco. Respira profondamente, l’aria gelata gli rischiara i polmoni. A occhi chiusi, la nuca all’indietro, emette grandi nubi fiato che esalano all’alto. “Dio mio, che ho fatto!” Se lo ripete più volte, con le mani si copre la faccia riabbassata. Piange, ancora, e sente ghiacciarsi in viso le lacrime.

La luce è sempre più filtrata dal bosco. Si deve decidere. Che fare del cadavere? Lasciarlo lì, vuol dire darlo in pasto ai lupi. Vuole che abbia una sepoltura cristiana. Lo trascina per le gavigne, con grande sforzo, fin dentro la capanna. Raccatta con la mano nuda anche quello straccio di carne violacea e rigida che fu la faccia, gliela pone accanto. Il fuoco dentro è spento, pochi carboni arancione, che ingrigiscono. Chiude la porta, sgangherata. Con l’accetta taglia un grosso ramo e ne fa come un chiavistello esterno, ce lo lega bene. Passato l’inverno, verranno a prendere quel corpo. Intanto starà lì, congelato. La sua tomba. È giusto che la sua capanna sia la sua tomba. La luce si va dileguando veloce, solo le cime degli abeti sono appena dorate. La neve manda riflessi azzurrognoli, sempre più illividita. Fra mezz’ora sarà buio nel bosco, completamente buio. Vede il mazzo dei soldi. Lo raccoglie. E scende a valle, stordito, svuotato. Non è più lui.

L’anima di Roberto è là in piedi nello spiazzo, dov’era prima il suo corpo. Lì per lì, nemmeno si è accorto di essere morto: si è ritrovato in piedi, abolita di colpo ogni pena, e non ha capito perché sta lì in piedi sulla neve. Si è toccato la faccia: integra e sana. Il suo corpo semiaffondato nella neve ha fatto orrore anche a lui. Poi ha veduto con indifferenza quell’uomo trascinarlo nella capanna, l’ultimo rifugio di lui e dei suoi compagni disgraziati, della sua esistenza disgraziata. Ora il solco largo e irregolare sulla neve finisce là, contro quella porta sbarrata. Non odia l’uomo che lo ha ucciso. Che lui voleva uccidere. Meno male non lo ha fatto… Però avrebbe voluto farlo! Meno male non lo ha fatto! Sente che fra lui e quell’uomo, ferito orrendamente nel suo affetto paterno, la voragine dell’odio si è colmata d’incanto con quelle semplici parole: pietà… perdono… Pensa ai suoi disgraziati compagni, a come è stato lui a trascinarli in quella rapina. Che ha fatto della sua vita? E quei due semplicioni, li ha dominati con la sua boria prepotente… Gliene dispiace, gliene dispiace fino a strizzarsi il cuore. E ora? Che fare ora? La luce del mondo sta svanendo…

Chi è là? Chi sta venendo da quella parte, dove è fuggito Nanni? Ma è Nanni!...

Com’è possibile?! È così tranquillo, e non lascia impronte sulla neve… Come lui del resto.

I due compagni ora sono vicini, uno di fronte all’altro, si guardano come se fosse la prima, o l’ultima volta, memori e smemorati al tempo stesso. Si guardano come uno specchio posto di fronte a un altro specchio, senza espressione, interamente svuotati. Non sanno che dirsi. Stanno lì. Incapaci di muoversi, di pensare… A che devono pensare, del resto, ora che sono morti? Ma sono davvero morti? Non sarà un’estrema illusione questo vedersi lì in piedi? Nemmeno avvertono il freddo, che in carne li aveva tanto tormentati.

Nemmeno si parlano. Ma dovranno muoversi prima o poi. Ma andare dove? Aspettano. Che cosa aspettano? Fa ormai buio. Hanno paura, ma è una paura nuova: non che gli accada qualche disgrazia, ma che non accada niente. Lì al buio. È quella l’eternità?

E luminoso appare l’angelo Abasia, e li prende per mano, uno a destra e uno a sinistra, li smuove dalla loro rigidità e li conduce verso una luce debole debole, lontanissima come in fondo a un tunnel intenebrato che pare sprofondare nel bosco. Lo seguono docilmente, come due bambini.

Don Bruno scende verso la casa, con un braccio sulle spalle di Giacomo. Vedono sopra gli abeti il fumo azzurrino: hanno riacceso il fuoco, meno male. Quando fra i rami gravidi di neve la casa appare, Giacomo ha un sussulto, si ferma. Fa di no con la fronte bassa. Come può rientrare là, dopo quanto hanno fatto? Ma don Bruno lo scuote, tacitamente, lo guarda con fermezza: è proprio là che dobbiamo andare. Proseguono, e il prete lo sforza a camminare.

 I maremmani, benché rinchiusi, li avvertono arrivare: abbaiano come ossessi. Tonella col grembiale esce sulla soglia, e dietro Mara. A vederla comparire dietro quella sconosciuta, Giacomo si porta le mani sul viso, rifiuta di proseguire. Ma don Bruno lo tira, dice: “devi venire… prima lo fai e meglio è… Non temere la vergogna, ma piuttosto di non averla.”

Così arrivano davanti la porta. La perpetua ha uno sguardo dubbioso, e si fa duro e diffidente. Mara, poco dietro di lei, spalanca i suoi grandi occhi smeraldini, interrogativi. Non si sa mai che pensa. Certo avrà un po’ paura a rivedere quell’uomo che la stringeva per i polsi.

Don Bruno ha la faccia aperta e serena, quasi sorridente. Dice: “quest’uomo viene a chiedere scusa. È profondamente pentito di quanto ha commesso, se ne vergogna a morte. Preferirebbe essere morto prima di aver fatto quanto ha fatto. Non vuole evitare la punizione degli uomini. Saprà affrontarla con decenza, saprà utilizzarla fino in fondo, se prima sarà perdonato. Mara, che vogliamo fare?”

La ragazza è com’è, non intende gran che delle complicazioni del mondo, là isolata dal mondo. Ma le cose semplici, fondamentali, le basta un lampo di quei magnifici occhi verdi. La faccia di quell’uomo non è più cattiva, è la faccia di un altro uomo, è mencia e mite. Lei lo guarda, lo guarda con uno sguardo che diviene puro e insostenibile.

E Giacomo cade in terra in ginocchio a mani intrecciate in un nodo di pentimento, si mette a piangere, a testa china, come se avesse il collo troncato. Piange con sussulti innaturali. Loro tre in piedi, immobili, e lui in ginocchio a piangere. Un uomo che piange fa molto più effetto di una donna che piange.

Un minuto, due minuti non oltre tollerabili.

Don Bruno ha parlato, non vuole forzare la povera ragazza. Quel pianto più che esaurirsi, si fa più intenso, e Giacomo si piega, con la fronte fino a terra. Non sono più singhiozzi, ma è come un muggito strozzato, che fa effetto, come se gli strappassero il cuore. Anche Tonella, si vede, è commossa, con le mani strizza il grembiale; ma tace, sta fissa.

Ma perché piange così?” fa Mara, con una voce sospesa e quieta. Non è esprimibile il tono, la delicatezza. Capisce poco, ma in quel poco forse ha capito tutto.

L’uomo continua a lacrimare, ma non singhiozza più. Non ha la forza di alzarsi.

Don Bruno lo aiuta per un braccio, lo solleva quasi di peso. Giacomo, in piedi, non riesce a guardare Mara in faccia, torce gli occhi in basso, ai lati.

Entriamo, si congela,” dice Tonella. La casa è intiepidita. In cucina nel vasto focolare avvampa una fiamma crepitante di faville. Com’è meravigliosa quella fiamma, quelle faville crepitanti!

Giacomo è come istupidito, sta fermo in piedi da una parte, dove lo ha sospinto il prete. Tonella prepara il caffè, mette la macchinetta sulla brace. Mara è seduta lì accanto, guarda intensamente il fuoco, e la vampa le fa risplendere i capelli riccioluti e color miele. I suoi occhi gemmei brillano di mille riflessi. Chissà cosa pensa, fissando il fuoco…

Si sente aprire il portone. Il prete va svelto di là. Pietro finalmente! I due uomini si guardano, con gli occhi si scambiano parole che la lingua non sa dire. Poi Pietro gli va vicino, come in confessionale gli mormora lungamente presso l’orecchio. Il pievano abbassa sempre più il capo, finché pure Pietro, finito di parlare, lo tiene abbassato come lui. Stanno così. Poi don Bruno rialza la fronte, dice: “Pietro, in nome di Dio ti perdono. Se veramente sei pentito del tuo gesto, di là c’è uno che è già stato perdonato, e che ora chiede il tuo perdono.”

Il pastore si acciglia, guarda ombrosamente il prete, guarda attraverso la porta di cucina. Ecco ne viene Mara, va dal babbo, lo abbraccia. Dice: “babbo, è tutto finito, vero? È tutto finito?!”

Sì, bambina mia, sta’ tranquilla, è tutto, tutto finito.”

Proprio tutto,” dice don Bruno.

Trae un grande sospiro, Pietro, e va in cucina. Giacomo è sempre là, in piedi, come un manichino che sta ritto per caso, respira a testa bassa. “Per me,” dice il padre, a due passi da lui, “la cosa è finita qui. Ci vorrà che mi sbolla, ma da me non hai da temere più nulla.”

Poi il pastore si rammenta dei soldi, li cava di tasca, li depone sul tavolo. Giacomo a vederli ha un sussulto; anche lui se li cava dalle tasche laterali del giaccone, e da una interna. Li pone accanto agli altri, sono un bel mucchio. Dice don Bruno: “Pietro, mettili in un cassetto, domani si restituiscono”. Lui li mette in ordine nella vetrina della credenza, in vista. Tonella versa il caffè per tutti, con tanta acquavite, e mette in tavola dei biscotti. Il freddo patito smuove i tre uomini. Le loro mani si ritrovano prossime sul tavolo a prendere i biscotti, i bicchieri col caffè bollente: quasi si sfiorano, le mani, ma il ritegno le allontana.

Devo scaricare il furgone,” dice stracco Pietro. “Chi mi dà una mano?” I due uomini ovviamente si offrono. Muovere le mani, lavorare insieme, fa un gran bene a tutti, specie a Giacomo: si sente quasi di famiglia, ma sa che l’incrinatura fra lui e quella gente è irrimediabile.

Mentre scaricano, riprende a nevicare, con un bianco immenso fruscio, tutto sparisce d’intorno. A Giacomo l’automobile, laggiù, pare una scheggia di passato che va scomparendo nell’oblio bianco. E finalmente tutta la roba è in casa. Ora può anche crollare il cielo.

È calato il buio. Nevica, nevica, nevica... Non si vedono più le montagne, né i boschi di faggi e di abeti, nemmeno la stradina là in fondo si vede più: il mondo finisce al davanzale della finestra. Don Pietro guarda fuori, dice: “si sono spalancate le cateratte… Qualcuno verrà a prenderci, ho lasciato detto dove venivo. Domattina la Messa salta. Per stanotte, Pietro, ci devi ospitare. Domani verrà di certo la polizia con lo spazzaneve. Speriamo che puliscano bene le strade, se no per Natale ho le panche mezzo sgranate.”

E Pietro: “son otto anni che non nevicava così presto. Sì, fu otto anni fa, per la prima domenica d’Avvento…” Pensa alla sua Clorinda. Tonella e Mara vanno di sopra a preparare i letti, c’è tanto posto in quella casa troppo grande per due persone sole.

Vicino al fuoco, Giacomo pensa ai suoi trentasette anni buttati via, a quanti Natali passerà in galera… E meno male che non ha ammazzato nessuno. Se quella brava gente non sporge denuncia di stupro — che vigliaccata a fare quanto ha fatto! a reggere quella povera ragazza! — ci sta che qualcosa gli scontino… Come sta bene, lì vicino al fuoco. Vorrebbe rimanerci il resto della sua vita sgangherata. Chissà… Potrebbe uscire anche prima, a quarantadue, quarantatre anni… Anche meno. Potrebbe… Potrebbe tornare là, vedere che ne è di quella ragazza… — Ma che stai pensando? Sei ammattito? — dice a sé stesso, al midollo più segreto di sé stesso. Ma in fondo, in fondo a sé non può non pensarlo… Chissà!

Seduti al tavolino in attesa della cena, Don Bruno parla con Pietro del tempo, delle pecore, di tante cose; ma ogni tanto dà un’occhiata di sguincio a Giacomo, seduto presso il fuoco. Non è per niente cattivo. Come mai scuote tra sé la testa? Chissà che pensa. Avrà tante cose da riflettere in carcere. Poi, chissà, potrebbe anche tornare da queste parti, che si sono spopolate, rifarsi una vita… Dio lo sa Lui che farà.

Pietro esce a vedere il gregge: si ode un gran belare dall’ovile, le madri andavano già munte, e i cani uggiolano per la fame.

Dal piano di sopra giunge un’ombra di canto, appena un filo di voce, ma scioglie il cuore più di qualsiasi melodia. È Mara. Chissà che avrà da cantare quell’infelice. Per Giacomo è un balsamo. Con i piedi sul bordo del focolare, appoggia la fronte sui ginocchi rialzati. Ha tanta voglia di piangere, e lo fa in silenzio, il cuore gli trabocca dal bordo degli occhi. Il prete gli volta le spalle, sa che piange ma fa finta di niente; intanto scorre in silenzio il rosario, chicco dopo chicco, mentre dalla finestra guarda nevicare. Si sente colmare il cuore di bianco. Tra poco è Natale.

E lontano, lontano, l’ululare dei lupi nelle tenebre.

 

Marco Cipollini


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  Marco Cipollini, Quadro storto.
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  Rosaria Chiariello. L'Analisi dei “Rapports” cabanisiani di E.M. Cipollini
 
 
 
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