La settimana scorsa, parlando di un film inglese, Codice criminale, rilevavo la ricorrente difficoltà degli autori dei film polizieschi – salvo eccezioni, naturalmente – di raccontare realisticamente gli ambienti criminali, forse perché socialmente e culturalmente distanti da loro.
Un film americano di produzione indipendente, uscito in questi giorni nelle sale, mi consente di riprendere e sviluppare il discorso. Il film si intitola Cane mangia cane, è tratto da un romanzo di Edward Bunker (noto per romanzi almeno in parte autobiografici di ambientazione carceraria) ed è diretto da Paul Schrader che, come molti ricorderanno, è stato lo sceneggiatore di Taxi driver, e l'autore di tanti film, alcuni celebri come American gigolò (ma forse il più bello è Mishima dedicato alla vita e all'opera dello scrittore giapponese).
Cane mangia cane applica al crimine gli stessi due filtri, che finiscono per derealizzarne i connotati, che si ritrovano nei film di Tarantino.
Il primo è l'understatement, e cioè la minimizzazione della portata dei fatti criminali, per la quale, ad esempio, spappolare la testa di un uomo con un colpo di arma da fuoco, è un'impresa sbrigativa e in fondo divertente come centrare un birillo con una palla da bowling.
Il secondo è invece l'enfatizzazione dei connotati satanici del crimine, reso dunque oggetto di una condanna religiosa, e trattato infatti più che come una realtà come una tentazione peccaminosa e confusa tra le visioni di altri peccati, come l'uso delle droghe o il sesso perverso.
Nei film di Tarantino i due filtri formano una specie di contrappunto: la leggerezza dell'understatement introduce e contrasta l'esplosione infernale della violenza.
Nel film del qui emulo Paul Schrader la tonalità complessiva è più uniforme, più spenta, più lugubre. Ma l'influsso di Tarantino è evidente per esempio nella scena in cui uno dei tre criminali protagonisti del racconto, confida al compare di avere ucciso a pugnalate una donna e sua figlia, come se ciò fosse la conseguenza di un suo problema psicologico, tutto sommato comune. La confidenza avviene su una macchina in cui i due trasportano un terzo cadavere, e poco dopo, per un incidente che non vi racconto, si ritroveranno entrambi sprofondati nel mucchio dei tre cadaveri dalle membra ancora sanguinolente, proprio come in un girone dell'Inferno.
Da questi accenni, il film di Paul Schrader, potrebbe sembrare quantomai greve, pieno di effettacci. Ma così non è, perché il suo uso dell'immagine è curato e raffinato. Non evita tuttavia il rischio della maniera, dell'esercizio di stile un po' gratuito, che si verifica sempre quando è tradita, neutralizzata la realtà di ciò che si racconta.
C'è però almeno un momento del film che contraddice questo giudizio. Dopo un colpo andato a buon segno, i tre criminali si separano e ognuno festeggia per conto suo trovandosi una donna con cui passare la notte, perlopiù una prostituta. Ma comunque: o perché la donna è interessata unicamente ai soldi e rifiuta ogni ulteriore coinvolgimento, o perché si spaventa e si ritrae appena emerge il carattere violento del partner, quella notte si rivela una delusione per tutti e tre. E il senso di desolazione che ne consegue è quello, stavolta del tutto realistico, di chi, uscito da poco dal carcere, si ritrova emarginato dalla società.
Dei tre attori protagonisti, il più realistico, pienamente convincente, è William Dafoe. Gli altri due sono Nicolas Cage e Christopher Matthew Cook.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 22 luglio 2017
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