Ero stata interpellata per fare il giorno 23 una visita al Cpt di Gradisca, che si trova nel collegio nel quale sono stata eletta e che avevo visitato (dall'esterno, perché non ero ancora senatrice e non avevo titolo per entrarvi) durante la campagna elettorale, ricavandone una sensazione molto brutta. “Gradisca” è stato costruito apposta e contro la volontà della regione Friuli-Venezia Giulia, che aveva votato una delibera contraria alla costruzione di un simile istituto sul suo territorio: essendo una regione a statuto speciale, il fatto che il Cpt sia stato costruito ugualmente dice qualcosa sul rispetto delle autonomie, delle forme cioè più prossime al "federalismo" da parte del governo precedente. Ma, a parte tutto ciò, penso che un gesto di parlamentari debba avere di mira una legge. Adesso potrei chiedere di visitare “Gradisca”, dato che i parlamentari hanno diritto di accesso: e lo farò nel programma di attività che concorderò con le istanze locali. “Gradisca” nuovo nuovo non è "utilizzabile" nemmeno come carcere, non rispetta le norme -appunto- carcerarie: è da buttare. Meno mi piaceva la visita di tutti e tutte le senatrici elette nel nostro gruppo, tutti insieme in una data: era -mi si dice- la priorità. Le priorità a dire il vero sono molte, ma la lotta contro la precarietà viene certo prima, e anche l'Afghanistan, e la questione della violenza contro le donne ecc. ecc.
Ma non è tanto tutto ciò che ho fin qui detto a rendermi tiepida verso l'iniziativa. Più in generale mi sono convinta che dovremmo fare una adeguata riflessione sulle forme di lotta e stabilire un raccordo, una relazione, una misura tra le forme di lotta nelle istituzioni e nei movimenti. Specialmente adesso, quando i movimenti hanno uno stretto riferimento (e persino un troppo stretto riferimento e quasi dipendenza), oppure nessun riferimento (e quasi una aprioristica ostilità) verso le istituzioni.
Prendo lo spunto dal movimento delle Donne che conosco meglio e che serve benissimo per dire ciò che intendo. All'inizio dell'anno 2006, col nome di "Usciamo dal silenzio" è ripreso -con forme nuove e mete e gesti di grande novità, però riconoscendo una relazione e trasmissione- il femminismo. Non subito c'è stata unanimità nel giudicare ciò che stava accadendo: tuttavia il dibattito (che ha avuto luogo -ad esempio- su Liberazione con una ricca messe di articoli e relazioni) ha consentito di capirsi: durante la campagna elettorale da "Usciamo dal silenzio" è venuto un invito a tutte le candidate dell'Unione per una relazione che si voleva stabile. Sono convinta che questo è il tratto di maggiore novità della fase di movimento, se si ricorda che il femminismo, di tutti i movimenti degli anni 70 era stato il più aspramente anti-istituzionale. Per quanto mi è stato possibile ho tenuto una relazione, sia con le femministe del mio collegio, sia con "Facciamo breccia". Bisognerà stabilire luoghi e mòdi e forme di incontro non solo casuali. A me pare che il grande tema, proposto dal movimento delle Donne in dimensione mondiale, della violenza contro le donne, e contro tutte le forme di violenza sessuale, considerata da parecchi nell'Unione discutibile, sia tra le priorità e debba essere presa in considerazione dalle istituzioni.
Ma la cosa sta andando così: la ministra, senza -credo- sentire nessuna del movimento, dato che non ha sentito nemmeno le colleghe del parlamento, ma solo il consiglio dei ministri, ha scritto un testo molto brutto -a mio parere- che muta addirittura la dizione storica e non parla nel titolo di violenza sessuale, né contro le donne né contro alcun altro soggetto. Nella proposta però c'è una tendenza securitaria e vengono inasprite le pene, che è davvero un capovolgimento di tutto il cammino percorso dal femminismo sul tema. La violenza sessuale non è prevalentemente una questione di ordine pubblico, ma culturale e di potere. E proprio mentre, dopo decenni di attese e spinte, comincia una riflessione tra gli uomini sulla loro sessualità e sulle sue caratteristiche storiche, sembra che la ministra non se ne sia accorta. Il testo è del tutto inadeguato e anzi contraddittorio. Luisa Boccia ha preso l'iniziativa di esprimere tutto ciò trovando consensi anche fuori del nostro gruppo. Ora bisognerà confrontarsi con "Usciamo dal silenzio" e con "194 parole di libertà", con Milano, Bologna, Roma Napoli e chissà quante altre realtà in merito. Non basta il confronto in parlamento (che comunque non c'è stato), meno che mai nel Consiglio dei ministri.
In una società complessa c'è una insufficienza intrinseca delle istituzioni e una dei movimenti: il governo di coalizione ha specifiche necessità per il suo funzionamento e ci si è data risposta con il programma e il metodo del consenso; il rapporto coi movimenti è ancora da studiare. Lavorando -credo- sul concetto di limite reciproco e complessivo. In una visione ologrammatica dei soggetti, nella quale la politicità è vasta e diffusa e il rapporto prevalentemente a rete, qualsiasi forma gerarchica non giova. Bisogna mutare il simbolico, imparare ad apprezzare e ad amare le forme complesse, come i tessuti pieni di colori e fatti di fibre di diversa natura che portiamo addosso. Ma intanto abbiamo ancora in testa visioni da mondo organicistico, patriarcale, che per essere fuori tempo sono di per sé violente. È proprio ora di liberarsene.
Lidia Menapace