Tra i più noti ed affermati artisti contemporanei, David Hockney (Bradford, 9 luglio 1937) diviene uno dei principali esponenti della Pop art anglosassone dall’inizio degli anni sessanta. Viaggia spesso per gli Stati Uniti, si trasferisce poi stabilmente in California. Fa dell’elemento figurativo il cardine della propria produzione artistica, che non si limita alla pittura. È infatti incisore, disegnatore e ritrattista, nonché fotografo ed autore di alcuni collage fotografici realizzati con la Polaroid.
Hockney è anche scenografo. Lavora all’Ubu re di Alfred Jarry, allestito al Royal Court Theatre di Londra nel 1963. Negli anni settanta realizza le scenografie de La carriera di un libertino per il Glyndebourne Festival Opera del 1974, e de Il flauto magico al Metropolitan Opera di New York del 1978. Nel 1994 disegna i costumi della Turandot messa in scena alla San Francisco Opera.
Due grandi esposizioni celebrano a livello internazionale l’ottantesimo compleanno del grande artista inglese, e californiano d’elezione, David Hockney. Tuttora attivissimo è la dimostrazione vivente che la pittura, nel senso pieno e felice del termine, continua a essere una forma essenziale di espressione visiva in presa diretta con lo spirito del tempo attuale, pur mantenendo profondi legami con la più alta tradizione del passato.
La mostra al museo di Ca’ Pesaro, a cura di Ediyh Devaney, con la direzione scientifica di Gabriella Belli, aperta fino al 22 ottobre 2017, (che proviene dalla Royal Accademy di Londra e farà tappa anche al Guggenheim di Bilbao e al Los Angeles County Museum) è concentrata su un solo ampio ciclo di ritratti, che mette in luce un aspetto fondamentale della ricerca dell’artista, mentre al Centro Pompidou di Parigi si è da poco inaugurata una straordinaria retrospettiva, con oltre 160 opere, realizzata in collaborazione con la Tate Britain e con il Metropolitan Museum di New York.
La mostra veneziana, che si intitola “82 ritratti e una natura morta” (dove la presenza “incongrua” di un dipinto di altro genere è un acuto e ironico avvertimento), è un impegnativo tour de force, realizzato nel periodo 2013-2015, che Hockney ha concepito come una sorta di immenso polittico unitario, una rigorosa e allo stesso tempo polifonica festa cromatica, sociale e fisiognomica formata da personaggi maschili e femminili, giovani e vecchi, famosi e sconosciuti, in gran parte suoi amici e conoscenti. Ne emerge con forza la rappresentazione di uno spaccato di umanità, quella del suo mondo, che galleggia serenamente in una dimensione lontana dagli aspetti più inquietanti e drammatici della realtà contemporanea.
Hockney è considerato, secondo un giudizio banalmente stereotipato, come il cantore dell’edonismo californiano, quello delle ville e delle piscine dei ricchi, delle scene di esterni ed interni immerse in atmosfere luminosamente abbaglianti, della libertà gay, degli sgargianti paesaggi monumentali. Questi sono i soggetti più noti dell’artista, ma la sua ricerca pittorica nel segno della triade luxe, calme et volupté, che vuole cogliere l’essenza della joie de vivre (il riferimento a Matisse mi pare essenziale), è qualcosa che nasconde nella superficie stessa della composizione una profonda e enigmatica tensione melanconica, quella che nasce dal sogno di fissare in un illusoria dimensione spazio-temporale sospesa la fragilità effimera dell’esistenza umana. In questo senso i suoi ritratti rappresentano forse gli esempi di più pregnante intensità espressiva, nella misura in cui riescono letteralmente a inquadrare la vita come specifica individualità, fornita di nome e cognome. Dunque una serie di ritratti; la catalogazione di un universo personale, ma anche una tassonomia dei tipi umani; una riflessione sulla pittura come medium e, ovviamente, un grande, debordante self portrait. La mostra “David Hockney – 82 ritratti e una natura morta” può essere contemporaneamente tutte queste cose, oltre che una lezione straordinaria sui modi in cui si può dipingere una sedia, sempre la stessa sedia, sulla quale il pittore inglese ha fatto accomodare, per non più di tre giorni di posa, amici, conoscenti, persone con cui lavora. Insomma un contesto per certi versi quotidiano, anche se alcuni dei personaggi ritratti si chiamano Gagosian, come il gallerista Larry, oppure Baldessari, come John, il grande artista americano.
La mostra di Ca’ Pesaro, allestita con la stessa generosità coloristica di tutti i ritratti, è un’esperienza visiva che induce a pensare alla pittura più pura: lo sfondo bicromo di ogni dipinto ricorda le grandi campiture dell’astrattismo più consapevole; oggetti trovati cari alla poetica surrealista, mentre la tavolozza di colori, talmente ricchi da sembrare quasi immaginari, è completamente Hockney, una specie di marchio di fabbrica del pittore di A bigger splash, qui ancora più consapevole dello strumento espressivo che impugna.
Il riferimento all’autoritratto è inevitabile, anche a costo di sembrare un po’ scontato, ma se sembra quasi naturale cercare le fattezze del pittore nel ritratto di Barry Hunphries, attore e scrittore australiano vistosamente abbigliato, meno prevedibile è che si possa trovarla anche nella giovane Oona Zlamany con i capelli sciolti e un vestitino corto a righe orizzontali. Ma poi ci si avvicina e si vede, distintamente, che quello non è un vestito estivo, ma è pittura e la pittura è il vero ritratto di David Hockney.
Naturalmente, come accade per chiunque pensi alla pittura figurativa, i ritratti esposti a Venezia finiscono inevitabilmente per andare a sbattere contro Francis Bacon, ma l’incidente per una volta, non lascia danni, anzi, la grandezza di Hockney si manifesta appieno nella consapevolezza e nel contestuale superamento della imprescindibile lezione Bacon, il tutto fatto con leggerezza, ma senza perdere la serietà del lavoro.
E così, quando a fine mostra ci si imbatte fisicamente nella sedia su cui ha posato ogni soggetto, è impossibile non sedercisi, ma più che per immaginare di essere, parafrasando Giulio Paolini, una persona che osserva David Hockney, lo si fa per sentirsi parte tangibile di un modo di stare nell’arte contemporanea probabilmente come pochissimi al mondo.
Maria Paola Forlani