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Gianfranco Cercone. “Codice criminale” di Adam Smith
09 Luglio 2017
 

I film cosiddetti polizieschi – specie quelli che più che sulla polizia si appuntano sulla criminalità – soffrono spesso della evidente difficoltà degli autori di immedesimarsi in personaggi di una mentalità, di un ambiente, culturalmente e socialmente distanti dai loro.

Questo difetto di intuizione è allora colmato attraverso l'uso di stereotipi; e cioè di maschere di criminali. Oppure idealizzando o demonizzando gli autori dei crimini, come capita quando si osserva qualcuno realizzare ciò che, magari inconsciamente, desideriamo e che allo stesso tempo condanniamo.

(Naturalmente, rispetto a queste tendenze narrative, esistono alcune eccezioni anche luminose).

Codice criminale, un film inglese, diretto da Adam Smith, ha il merito di voler raccontare realisticamente, affrontando il tema con serietà, nei modi di un film d'azione, un particolare ambiente criminale: quello di una famiglia di nomadi, stanziati in Inghilterra, in un accampamento composto di baracche e di roulotte.

Il film è attento a evitare di investire l'intera comunità dei nomadi, dei tratti della criminalità. Non soltanto si mostra che altre famiglie nomadi, oneste, sono assoggettate alla famiglia criminale, ne sono vittime; ma anche all'interno di quella famiglia, si producono delle contraddizioni, che sono anzi l'oggetto del racconto.

Se il patriarca è fiero della propria tradizionale delinquenza, che è animata da una specie di spirito anarchico, da una beffarda irriverenza nei confronti delle autorità costituite, e pretende che il figlio segua le sue orme, e che anche il nipotino non vada a scuola, è proprio il figlio a essere intimamente diviso, in contraddizione con se stesso.

Seppure ama le bravate contro, e alla faccia, della polizia, se prova il gusto dell'audacia del colpo criminale, allo stesso tempo sposato, con figli, spronato dalla moglie, vorrebbe rientrare nella legalità.

E contro questa sua aspirazione, il padre rivela un volto da oppressore, anche infido e spietato.

Ora: cosa non convince in questo dramma familiare nel quale, come si vede, si riflettono le contraddizioni di un particolare contesto sociale?

Va detto che le interpretazioni degli attori, come quasi sempre capita nel cinema inglese, sono di alto livello.

Però ecco: se Brendan Gleeson è un patriarca bolso e corrotto del tutto credibile, l'ottimo Michael Fassbender, nel ruolo del figlio, con i tratti “nobili” di quell'attore colto e raffinato che è, è molto meno adatto a interpretare un teppista analfabeta.

Ma il difetto principale, a mio parere, è soprattutto nella drammaturgia, nel racconto. Come capita nei film più schematici, capiamo subito, al primo colpo d'occhio, chi ha ragione e chi ha torto e perché. E sappiamo facilmente nominare i moventi delle azioni dei personaggi, che siano l'indecisione e la fragilità, oppure la pervicacia nel crimine.

Manca insomma al racconto quell'ambiguità e quell'indefinitezza che ci danno l'impressione della vita. La logica sembra qui avere sostituito l'immedesimazione nei sentimenti dei personaggi.

Codice criminale, come anticipavo, è un film d'azione. E il meglio del film sono forse gli inseguimenti automobilistici, spericolati come vuole il genere, che hanno soluzioni impreviste e quella particolare dinamicità capace, come si dice, di far sobbalzare lo spettatore sulla poltrona.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale l'8 luglio 2017
»» QUI la scheda audio)


 
 
 
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