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Gianfranco Cercone. “Parliamo delle mie donne” di Claude Lelouche
03 Luglio 2017
 

Una delle difficoltà di una pubblica confessione – oltre a quella di dover vincere il ritegno circa le colpe che si debbono dichiarare – è quella di trovare il tono giusto per confessarsi: c'è il rischio dell'autoindulgenza; ma anche quello del piagnisteo: di fustigarsi e piangersi addosso.

Ora uno dei meriti dell'ultimo film di Claude Lelouche (che come si sa è un autore molto prolifico del cinema francese, anche il più popolare) – il titolo italiano del film è: Parliamo delle mie donne, e ha tutta l'aria di un film-confessione – il suo principale merito è quello di aver trovato il tono giusto: sobrio, preciso e incisivo.

Al contrario che in altri film di Lelouche qui non ci sono complicazioni romanzesche o divagazioni avventurose: il racconto va dritto al sodo, a ciò che evidentemente all'autore importa esprimere. Si racconta di un vecchio fotografo di successo, che abbandona Parigi e insieme l'ultima delle sue mogli con cui a Parigi conviveva, e si ritira in uno chalet sulle Alpi, dove avvia una relazione con una donna molto più giovane di lui (l'agente immobiliare che gli ha venduto lo chalet).

Il suo ritiro da Parigi può avere più ragioni: forse è un pretesto per separarsi da una donna che non ama più; forse è stanchezza della vita mondana che si fa a Parigi; forse vuole appartarsi per riflettere sul suo passato, guardandolo come dall'alto.

Perché – e qui veniamo al contenuto della confessione – i ricordi della vita trascorsa gli procurano più di una ferita.

Molto bello in gioventù e tuttora dotato di grande charme, ha amato tante donne, ma anche le ha fatte soffrire, abbandonandole spietatamente. E di conseguenza, ma anche per star dietro ai viaggi che la sua professione comportava, ha trascurato le sue quattro figlie avute ognuna da una donna diversa (anzi cinque: scopre in extremis di avere una figlia naturale a Cuba).

L'ammissione di colpe di questo genere potrebbe non essere esente da un compiacimento maschilista.

E invece questo nel film di Lelouche non si avverte.

È vero che nello chalet di montagna confluiscono una dopo l'altra le sue figlie, che lo avevano abbandonato (grazie a uno stratagemma ideato da un vecchio amico del protagonista, che è anche il suo medico). E la giornata che passano tutti insieme con spirito conviviale – venata dal presentimento generale della prossima morte dell'uomo – sembra celebrare una specie di sommario perdono. Ed è vero che il film lascia intendere che ogni creatura umana è moralmente, prima che fisicamente, fragile. Ed evita di pronunciare un'assoluzione o una condanna del comportamento passato dell'uomo.

E tuttavia è il protagonista che non si assolve, e che si impone la più estrema delle espiazioni.

Oltreché per la piena credibilità di tutte le interpretazioni – il protagonista è interpretato da Johny Hallyday, e duetta assai bene con il suo amico interpretato da Eddy Mitchell (ma i due sono circondati da uno stuolo di attrici francesi, alcune grandi, come Irène Jacob e Sandrine Bonnaire), il film di Lelouche colpisce per la sua sincerità, e per la mancanza di moralismo con cui è affrontato il tema del colpa, senza che per questo la colpa risulti negata o attenuata.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 1° luglio 2017
»» QUI la scheda audio)


 
 
 
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