Ritorno all’Avana dopo alcune settimane di viaggio.
Piove a dirotto e, a dire il vero, alla città questo grigio senza inverno non dona. Ah, l’inverno! Quel breve istante, sensazione di sollievo impercettibile in cui noi cubani prendiamo di fretta i cappotti e sogniamo la neve ai tropici.
Adesso è piena estate, c’è un caldo asfissiante e appiccicoso portato dalla pioggia. Gli edifici di pietra, i ruderi bordati di felci, la fitta vegetazione non tagliata e il salnitro che arriva dal mare accentuano l’umidità che sale dai marciapiedi e ti penetra nelle ossa.
Mi metto in fila per sbrigare le commissioni quotidiane. Apro subito un conto per “navigare” in uno dei negozi di Cubacel e cerco di trasmettere in diretta dalle mie piattaforme le notizie interne, quotidiane di Cuba; cambio del denaro, pago la luce e il telefono, compro verdura, fagioli, cerco di rifornirmi nei negozi che, nemmeno in CUC, hanno molto per poter arrivare a settembre.
In tutti questi luoghi la gente parla del discorso di Donald Trump.
Che dice la gente del mio quartiere a proposito di queste nuove misure adottate dal governo di Washington nei confronti di Cuba?
Gran parte dei miei vicini è scontenta, vive degli affitti ai turisti o ha aperto piccole attività per saziare la sete e la fame che la spiaggia o le ore di lavoro lasciano. In queste caffetterie inventate nei portoni e nei garage o nei paladares della zona approdano americani solitari o in coppia che hanno deciso di rompere la cortina di ferro e di venire a capire il perché di questi 50 anni di ostilità.
Noi che viviamo qui non siamo estranei alla realtà che ci circonda e ci chiediamo se nel caso di Cuba, dove quasi tutto appartiene allo stato o quasi tutto finisce nelle mani dello stato, sarà possibile individuare dove finiranno i guadagni finali
I miei vicini credono che siano proprio queste poche centinaia di americani con pochi mezzi – la maggior parte afroamericani – donne sole o membri della comunità LGTB, a cui in futuro verrà impedito di venire sull’isola individualmente. Sono proprio loro quelli che in realtà evitano di alloggiare in hotel costosi come El Nacional, El Meliá Habana o Cohíba. Quelli che vengono qui in visita sono persone del popolo, professori, lavoratori che mettono da parte i risparmi per anni e decidono di seguire i percorsi che le famiglie cubane hanno tracciato per sopravvivere.
Perché non pretendere da questi turisti che alloggino e mangino, si mantengano attivi economicamente in luoghi o terreni privati? Perché non trovare dei sistemi che assicurino le vie alternative in caso di turismo autonomo? Devo ammettere che il contatto di questi americani con il popolo crea un forte scambio di conoscenze, esperienze, modelli diversi che delineano un nuovo panorama nello straordinario ricongiungimento culturale prodotto dalle misure di Obama.
Noi che viviamo qui non siamo estranei alla realtà che ci circonda e ci chiediamo se nel caso di Cuba, dove quasi tutto appartiene allo Stato o quasi tutto finisce nelle mani dello Stato, sarà possibile individuare dove finiranno i guadagni finali, ma, finché questo non accadrà, la profonda impronta lasciata dalla convivenza tra cubani e americani rimane innegabile.
Sono 46 anni che assisto allo stesso spettacolo dal salone di casa mia. Mi siedo qui per vedere, dal vivo, questa pellicola domestica di cui già canticchio il finale:
Il governo di Cuba e il suo partito unico non si piegheranno alle richieste di Washington, quindi Trump inasprirà la politica verso l’isola… e saremo noi, il popolo, a venire ancora danneggiati per decenni.
Alcuni continueranno a sfilare in Piazza, altri a scappare attraverso il mare, un piccolo gruppo tenterà di cambiare le cose, altri prenderanno coraggiosamente la parola dall’esilio come se non avessero mai sfilato a Piazza della Rivoluzione, ma la mia cronaca nelle prossime estati e con i prossimi presidenti americani sarà esattamente la stessa. Un passo in avanti e quattro passi indietro sotto il rovente calore tropicale.
Wendy Guerra
(da el Nuevo Herlad, 21 giugno 2017)
Traduzione di Silvia Bertoli