Finite le elementari, noi ragazzini di undici anni prendevamo il treno per frequentare la scuola media o di avviamento professionale a Roma o in qualche comune dei Castelli. A Ciampino, che stava allora popolandosi con il boom edilizio, oltre alla scuola elementare statale e delle suore clarettiane c’era solo la scuola media privata “Francesco Petrarca” – detta “Bolotta” dal nome della preside che la gestiva – aperta nel 1949 e in cui nei primissimi anni Cinquanta aveva insegnato Pier Paolo Pasolini. Per quanto la scuola dell’obbligo prevedesse otto anni di frequentazione, fino al 14° anno d’età, accadeva che specialmente per le femminucce l’istruzione terminasse con la quinta elementare, ritenuta sufficiente per essere buone cristiane e spose e madri esemplari. E spesso erano proprio le madri a ostacolare le figlie nello studio, pensando di preservarle dai mali del mondo mandandole a imparare il mestiere dalla sarta o quantomeno a ricamarsi il corredo. Corsi anch’io questo rischio, ma chiesi aiuto a mio padre che non so come fece, ma alla fine convinse mia madre a lasciarmi proseguire la scuola. Avviamento professionale a tipo commerciale a Frascati, la cittadina più vicina, un quarto d’ora di treno, con i libri usati di una vicina di casa che li cedette a metà prezzo. Non si studiava il latino ma si cantava la Marsigliese e s’imparava a memoria l’Ave Maria in francese con una pronuncia da lingua madre mai più perduta seppure non utilizzata. E così presi gusto a recitare in francese anche le altre preghiere che mi riuscì d’imparare, e fu un utilissimo esercizio.
Il nostro insegnante di religione si chiamava don Giovanni Busco. Era molto giovane e spigliato e lavorava sodo con noi, come un missionario. In quel primo anno scolastico vissi di rendita. La buona formazione ricevuta dalle suore dava i suoi frutti ed io m’impegnavo a non deludere le attese dei professori. Ero ancora una brava bambina desiderosa di compiacere – e comunque non dare dispiaceri – alle persone che fidavano in me e nella loro opera di educatori.
Don Giovanni mi chiamava spesso alla cattedra e mi metteva alla prova. Poi controllava il quadernino di religione e mi rispediva al banco con una nota di merito sul diario – tra cui ricorrente: “Lodo l’impegno nel fare lavori non prescritti” – che la sera mio padre leggeva con le lacrime agli occhi. Ma una volta che per compito a casa si doveva spiegare con parole proprie il dogma della verginità di Maria, e il concepimento di Gesù avvenuto per opera dello Spirito Santo, don Giovanni scrisse sul diario un secco “Fuori tema” che mio padre lesse e sottoscrisse quasi con vergogna.
La verginità della Madonna – che si rischiava di confondere con il dogma dell’Immacolata Concezione, secondo cui Maria Vergine nacque senza peccato originale – si ripresentava in tutto il suo mistero, accresciuto dalla fantasia fervida della prima adolescenza, che ognuno di noi tentava di svelare a suo modo. Un compagno dell’ultimo banco, che non fiatava mai, durante la lezione sul “concepimento virginale di Gesù” si era alzato in piedi e aveva proclamato: “Non è possibile che una donna possa concepire un figlio senza perdere la verginità”. Al che don Giovanni, senza scomporsi, aveva risposto che per il “trascendente” non vale la logica ma la fede e aveva fatto l’esempio, indicando il finestrone battuto dal sole, della luce che passava attraverso i vetri senza romperli. E in quel momento, per simpatia verso il ragazzo che aveva espresso il pensiero che aleggiava confusamente nella testa di tutti noi, avrei voluto provare a frantumare quei vetri a sassate.
Se nel primo anno ero stata la prima della classe, dieci in condotta, nel secondo divenni l’afflizione degli insegnanti, sconcertati dal mio repentino cambiamento. Neppure io capivo quello che mi stava accadendo, era come se scoppiassi nella mia stessa pelle. Frequentavo ancora l’Azione Cattolica ma svogliatamente, solo per seguire attività ricreative e andare al cinema la domenica all’oratorio. Non mi confessavo più regolarmente e don Vittorino spesso mi faceva il predicozzo, anche in presenza di altri, richiamandomi ai miei doveri di Aspirante. Ma io aspiravo solo a correre per i boschi del Tuscolo fino alla croce di ferro posta in cima alla collina, abbracciare quel freddo metallo e lanciare un urlo verso la pianura sottostante, e correre di nuovo giù per arrivare in tempo all’apertura della scuola. C’era una cappellina al Tuscolo con una madonnina che mi ricordava quella della cappella delle suore, e sempre le lasciavo un fiore passando. Ma senza confidarmi con lei, senza più pregarla. Mi sentivo sola e non volevo compagnia.
Don Vittorino, cui nulla sfuggiva, cercava di allettarmi inserendomi nel coro, stonata com’ero, o incaricandomi di badare ai Piccolissimi nei giochi e durante le funzioni. Si facevano anche lavoretti per l’Associazione, come confezionare fiori con la carta argentata recuperata in giro e venduti a libera offerta, il cui ricavato andava a beneficio dei missionari sparsi per il mondo. A Pasqua si distribuivano le palme e l’ulivo benedetti dipinti d’argento e a Natale si faceva il mercatino cui contribuiva l’intera cittadinanza, e quello che si racimolava con le offerte faceva fondo cassa per le urgenze, riparare il tetto in parrocchia o aiutare famiglie in difficoltà, ma anche per organizzare qualche uscita.
Una domenica si partì per Roma, diretti al Vaticano, al Museo del Tesoro di san Pietro. Una meraviglia. Restammo tutti abbagliati, intontiti da tanto splendore e ricchezza. Non ne parlai con nessuno, ma quella visita mi scatenò dentro un diluvio di domande e di dubbi. “Sono beni della chiesa ma non appartengono alla chiesa”, fu la spiegazione fornita dai nostri accompagnatori e quella mi feci bastare.
Il dilemma si ripresentò quando mi capitò di ascoltare, alla stazione di Frascati in attesa del treno, i discorsi dei ragazzi più grandi e più avanti negli studi, fra cui una ragazza di Ciampino che abitava al Sacro Cuore con gli altri sfollati. Si chiamava Elsa e profumava sempre di sapone di bucato. Stavano parlando delle ingiustizie del mondo, della disparità sociale fra capitalisti e lavoratori, e della Chiesa che predicava la povertà e ammucchiava ricchezze. Intervenni – non invitata – in difesa della chiesa, ripetendo quanto ci era stato detto in occasione della visita al Tesoro di san Pietro ed Elsa, molto gentilmente, mi consigliò d’informarmi prima di parlare e di non ascoltare solo la campana della parrocchia. Lasciandomi con alcuni interrogativi: “Se i beni della chiesa non appartengono alla chiesa, mi dici perché solo loro li amministrano facendone l’uso che credono? E perché non mettono case e palazzi e ricchezze a disposizione dei senzatetto e dei bisognosi?”
Era voce corrente che gli sfollati del Sacro Cuore, così come tutti i poveri e nullatenenti, fossero comunisti, dei senza dio oppositori dei democristiani e dei cattolici in genere, sempre armati di falce e martello e di bandiere rosse, e mai una volta in chiesa o dietro alla processione, tutti scomunicati. E qui finiva ogni ragionamento per chi non si intendesse di politica, altro dogma di altra religione, e si andava al cinema a vedere Don Camillo e l'onorevole Peppone per farsi quattro risate e schiarirsi le idee sui rapporti tra parroco “nero” e sindaco “rosso” dello stesso comune. E comunque le domande di Elsa, specialmente la seconda, fecero il nido nella mia testa procreando interrogativi a non finire, contrastati alla meno peggio dagli insegnamenti di fede che mi erano stati inculcati.
Passate le feste, all’inizio del 1956, mio padre, per la prima volta da quando io potessi ricordare, non si recò al lavoro.
Fu l’inizio di un incubo.
Vedere mio padre girare per casa nel pigiama a righine mai indossato prima, tirato fuori dal cassetto del comò con la biancheria di riserva, fu un segnale catastrofico che fece rabbrividire tutta la famiglia.
Mio padre si curava qualche malanno di stagione con il vino rosso bollente al peperoncino, nei casi più resistenti strofinandosi il torace e le spalle con un olio alle erbe officinali di sua preparazione e un tazzone di latte al miele prima di coricarsi. Stavolta non faceva niente di niente, guardava fuori dalla finestra l’orto e il giardino che aveva sempre curato con passione, ma quasi senza interesse, con le mani nelle tasche del pigiama e l’espressione assente.
Cancro. Niente da fare, solo aspettare il peggio. Una diagnosi senza speranza che però non stupiva, per casi precedenti verificatisi in famiglia. Fratello minore di tre sorelle, mio padre era rimasto solo. Al ritorno dal funerale della sua ultima sorella, l’anno avanti, mio padre aveva detto: “Adesso tocca a me”. Parole agghiaccianti pronunciate con voce piana che non ammettevano replica né conforto.
Se mio padre non fosse stato così convinto dell’ineluttabilità della sua prossima fine, forse non si sarebbe rassegnato, avrebbe lottato e con lui tutti noi della famiglia ci saremmo opposti con ogni mezzo al male che velocemente prese a rosicchiarlo. Forse. Di certo posso solo dire che personalmente non rivolsi preghiera a nessuno, né in cielo né in terra, chiusa in un rancore indirizzato prima di tutti a me stessa, impotente di fronte all’inerzia che toglieva forze a mio padre.
Nei mesi che seguirono – mio padre se ne andò all’inizio di maggio – solo mia madre non si arrese. Non poteva, lei che non si staccò mai da quel letto impregnato di dolore, darsi per vinta negando così la sua fede in Dio. Dio giusto, Dio buono, Dio misericordioso. Lo chiamava con tutti i nomi possibili mentre sbatteva i panni alla fontana, preparava il brodino che mio padre non ce la faceva a sorbire, spazzava il pavimento con furia come a voler scacciare bestie immonde che vi si fossero annidate. Le finestre sempre spalancate, per non far ristagnare quell’odore di talco e di alcool di cui la stanza era intrisa.
Ma dio non rispondeva e mia madre seguì altre strade. Prendeva il treno e andava a Roma senza dire dove, e quando tornava, con lo sguardo acceso e carica di energia, allontanava tutti e si metteva al lavoro. Potevo osservare dalle persiane socchiuse ogni sua mossa, e mi faceva paura. Mormorava parole confuse, ripetute con diverse intonazioni, come se parlasse e insieme si rispondesse, come se fosse due persone in una che si dessero battaglia. E intanto accendeva bastoncini d’incenso e ne raccoglieva la cenere che spargeva a pizzichi in tutti gli angoli della casa, abbondando nella stanza del malato e sotto il letto, dove lasciava fumare bastoncini che giunti a consumazione prontamente sostituiva. Poi tirava fuori una boccetta che si teneva in petto e mentre intonava lamentose litanie, fra supplica e minaccia, si versava sulle mani qualche goccia di quello che sembrava olio e le passava sulla fronte, sulla nuca, sul petto e sui piedi di mio padre, disteso nella stanza annebbiata dai fumi.
Ma pur seguendo altre vie, mia madre mai abbandonò quella del Signore. Accanto al malato si pregava ininterrottamente, anche con l’aiuto dei vicini che si davano il cambio, e tutte le sere si recitava il rosario. Al rosario partecipava anche uno dei miei fratelli non credente e più d’una volta fu lui stesso, in ginocchio, a scorrere la corona che bagnava di lacrime.
Poi, verso la fine di aprile, mia madre tornò da Roma trasfigurata, con una luce febbricitante negli occhi pesti per il troppo piangere e le nottate insonni. E disse che nostro padre presto sarebbe “stato meglio”. Stessa cosa ripeté il sacerdote che portava i conforti religiosi a mio padre, e si era ai primi di maggio.
Sognavo mio padre col vestito buono e il cappello di feltro inclinato da un lato, come sempre lo portava. L’espressione tenera e quasi colpevole, il suo sguardo che si pianta nel mio e vi rimane infisso. La sua figura che lentamente si allontana come sospinta da un vento che spirasse dal basso, la sua mano che si tende come a volermi afferrare, afferrare la vita che da lui mi veniva.
Io che piango o forse sogno di piangere. Si apre la porta della stanza e mia madre sveglia me e i miei fratelli e ci fa segno di seguirla.
Si stava facendo giorno. Sento le mie grida, viscerali e distanti. E mio padre rantolava nel letto. Poi, dopo qualche ora di un’agonia che strozzò il respiro a tutti noi, mio padre cominciò a “stare meglio” fino a guarire del tutto. Volato via come risucchiato dal vento, così come lo avevo sognato.
Sia il santone che il prete non avevano mentito ma non avevano detto tutta la verità. Chi per soldi chi per carità cristiana. Non perdonai nessuno dei due per aver ingannato mia madre con le loro facili profezie, anche se capivo che le erano stati d’aiuto nell’attraversare i momenti peggiori dandole modo di aggrapparsi a una speranza, che loro sapevano quanto fosse vana. E non perdonai la Morte e il suo mandante, crudelissimi e ingiusti verso un uomo onesto e di fede come mio padre.
Fu in quel giorno di vento di un maggio che sapeva ancora di neve, che scoppiò apertamente la guerra fra il mio credo e la mia credulità.
Maria Lanciotti
Alla ricerca della spiritualità
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