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Giuseppina Rando. Un clone
(foto Chiara G.)
(foto Chiara G.) 
27 Giugno 2017
 

Camminava lentamente con passo stanco lasciando orme profonde lungo il bagnasciuga.

Mentre affondava i piedi nella sabbia lucida e molle, voci strane e cupe risuonandogli dentro dipingevano sul suo volto, dai tratti scavati, il color della cenere.

Era vecchio, Gelio: sulle sue spalle i ricordi di una lunghissima vita, un Noè dall’espressione triste, condannato a rivedere qualcosa di già visto, costretto a constatare che tutto torna, tutto si ripete.

Il suo sguardo opaco era quello di chi non ha più curiosità, che guarda la vita attraverso un filtro che ne sfuma i contorni.

Accanto lo seguiva, come ombra, una giovane donna, sua amica, Eva.

Era bellissima, la carnagione rosea, due occhi chiari, capelli castani. La sua bellezza non conosceva ancora l’usura del tempo.

Un colpo di tosse stroncò il discorso che Gelio stava per iniziare e si perse nel mormorio delle onde.

Riprese la parola come se parlasse a se stesso:

Platone sognava la Repubblica dei filosofi, oggi tutti sognano la Repubblica “del viver a lungo”. Ci sono riusciti. La scienza mi ha dato una lunghissima vita, ma mi ha tolto la gioia di vivere, non provo più emozioni. Sono carne senza anima.

Perché parli così, Gelio? Tu sei ancora un uomo di rara intelligenza, un amico eccezionale che mi ha dato luce, forza, coraggio. Tu sei l’artista, il poeta, lo scrittore che mi ha fatto e mi fa sognare.

La vita è un sogno, Eva. Il mio spirito anela ad uscire da questa gabbia di cellule, da questo corpo divorato dall’autocorrosione. Il mio spirito anela a volare libero.

Un’onda più lunga bagnò i calzoni di Gelio e gli spruzzi il viso di Eva. Un gabbiano, dopo un ampio volo su di loro, si posò in cima allo scoglio di fronte. Si fermarono.

Vedi, Eva, riprese il vecchio, spesso sogno di essere un gabbiano. Forse in un'altra vita sarò stato un gabbiano, avrò cantato un canto senza parole; solo suoni. Un canto di chi vinto non si rassegna. Il passato è dimenticato, è instabile, è come il mare interiore comunicante con il mare dell’oceano della vita tutta, dove si può sfociare se non ci si aggrappa ad un angolo di terra ferma, visibile per qualche istante per poi essere di nuovo sommersa.

Il mare divenne a poco a poco scuro, lenta scendeva già la notte. Nel cielo poche stelle. Eva sentiva il respiro ansimante di Gelio, dal quale nonostante gli acciacchi fisici si sentiva sempre più attratta. Aveva tanto desiderio di scavare nel suo passato di conoscere la sua vita intima e così disse:

Ho saputo che hai avuto una passione di fuoco per una bella donna. Com’era quella donna? Descrivila, Gelio.

L’amico si girò per guardarla e come se la vedesse solo allora: – Era come te, era il tuo doppio – mormorò accigliandosi.

Un sosia, un clone della mia immagine?

Un lungo, lunghissimo silenzio. Poi Gelio riprese:

Sì, ma il cervello non è replicabile mia cara amica. L’ipotesi dell’immortalità dovrà fare i conti con un vissuto neuronale che è già vecchio.

Già, – aggiunse Eva, – come scrisse Seneca: Quam bene vivas refert, non quam diu (non importa quanto si vive, ma come si vive). Ancor oggi è così.

Stanchi per la passeggiata e ancor più per la difficile conversazione i due amici tornarono in albergo.

Salirono nelle rispettive camere, una di fronte l’altra.

Eva era turbata. Sentiva rumore nella camera di Gelio: temeva che soffrisse, oppresso dalla sua sempre più tetra fatica di vivere. Eppure lo amava, lo amava anche senza speranza.

La consolò il pensiero di essere un clone.

 

Giuseppina Rando

 

 

Tratto da Nel segno, Pungitopo, Marina di Patti (Me), 2010 – Premio letterario “Città di Offida - Joyce Lussu” 2011 (Sesta edizione)


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