Benito Mussolini, dopo essere stato uno dei più accesi neutralisti, cambiò idea e alla fine del 1914 diventò interventista, tanto che fonderà i “Fasci d’azione interventista” per spingere l’Italia ad entrare in guerra. Nel frattempo però l’impreparazione dell’esercito si era resa evidente nelle operazioni di soccorso ai terremotati di Avezzano:
«È certo che questo terremoto» dirà Mussolini «ha rialzato le azioni della neutralità. Basta sentire i discorsi del popolino il quale costatando tanta sventura si chiede se sia il caso di andare a cercarne altre alle frontiere».”
Ma non se la prende solo col “popolino” infatti: «Un altro sintomo è la massoneria, èssa non è stata all’altezza della situazione, una associazione simile avrebbe potuto fare qualcosa di più per creare uno stato d’animo bellicoso nel Paese».
Il patto di Londra, col quale il capo del governo Salandra impegnava l’Italia ad entrare in guerra entro un mese a fianco dell’intesa, fu firmato il 26 aprile 1915 col solo appoggio del re e del ministro degli esteri Sonnino, nonostante in Parlamento vi fosse una maggioranza contraria alla guerra. L’accordo restò segretissimo, ed anche il governo nella sua collegialità venne informato del Patto di Londra e della decisione di entrare in guerra solo il 7 Maggio. Il 13 maggio 1915 Salandra criticato dalla maggioranza parlamentare fu costretto a dimettersi (dimissioni però poi rifiutate dal re).
Due giorni dopo, il 15 maggio 1915 Mussolini si scaglia contro il Parlamento: «Questi deputati che minacciano pronunciamenti alla maniera delle republichette sud-americane, questi deputati che diffondono – con le più inverosimili esagerazioni – il panico nella fedele mandria elettorale; questi deputati pusillanimi, ciarlatani… questi deputati andrebbero consegnati ai tribunali di guerra! La disciplina deve cominciare dall’alto se si vuole che sia rispettata in basso. Quanto a me, sono sempre più fermamente convinto che per la salute dell’Italia bisognerebbe fucilare, dico fucilare, nella schiena, qualche dozzina di deputati, e mandare all’ergastolo un paio almeno di ex ministri. Non solo, ma io credo con fede sempre più profonda, che il Parlamento in Italia sia un bubbone pestifero. Occorre estirparlo».
In questo clima, il 23 maggio 1915 in ottemperanza agli accordi, l’Italia dichiarava guerra all’Austria. Mussolini canta vittoria. Richiamato alle armi nei bersaglieri e inviato al fronte il 2 settembre non rinuncerà a criticare ancora «la propaganda perversa e malvagia del neutralismo criminale». Nel dicembre 1915, dopo aver ripreso le parole di Salandra pronunciate al Senato, «la repressione è un’arma a doppio taglio, ma noi ci taglieremo le mani pur di recidere la testa ai nemici della patria», scriverà contro il Papa e la Chiesa: «Benedetto XV ci propina le sue encicliche, i suoi discorsi i suoi lamenti. Circolano – anche fra i soldati combattenti – delle ridicole preghiere pro-pace. Non è la pace giusta che preti e socialisti vagheggiano»; «oggi solo i propositi forti e virili possono aver diritto alla libera espressione, non ciò che debilita e divide».
Inviato sul Monte Nero così descrive la vita in trincea: «La vita in trincea è la vita naturale, primitiva. Un po’ monotona. Ognuno dorme quanto vuole, si gioca a sette e mezzo o a testa o croce. La distribuzione dei viveri è l’unica variazione della giornata: ci danno un pezzo di formaggio e mezza scatoletta di carne, pane buono e quasi a volontà. Di rancio caldo non è questione. Gli austriaci hanno bombardato con i 305 le cucine e hanno fatto saltar per aria muli, marmitte e cucinieri».
Il 21 febbraio 1917 annotava divertito: «lavorato gran parte della notte per la postazione di un cannoncino lanciabombe. Stamani all’alba ho dato il buon giorno ai tedeschi, con una bomba Excelsior tipo B, è caduta in pieno nella loro trincea. Il puntino rosso di una sigaretta accesa si è spento, e probabilmente anche il fumatore. Oggi ci hanno bombardato per parecchie ore. Ho aumentato la dose per la buona sera. Ho lanciato due bombe. Bersaglio».
Ma il divertimento col nuovo cannoncino lanciabombe durerà poco, e l’accanimento guerresco si rivelerà già allora, una pericolosissima arma a doppio taglio per il futuro duce d’Italia: solo due giorni dopo infatti, il 23 febbraio 1917, dopo aver spedito due casse di granate sul nemico, una granata scoppia nella canna del lancia bombe, Benito verrà scaraventato a terra gravemente ferito.
Il re che gli farà visita all’ospedale militare il 7 marzo:
Re – Quale crede sia stata la causa dello scoppio?
Mussolini – Tubo di lancio troppo arroventato.
– E già – ha aggiunto il sovrano – forse il tiro era stato troppo rapido! Bravo Mussolini sopporti con rassegnazione l’immobilità e il dolore.
Il re volgeva quindi verso gli altri feriti. Al lato sinistro di Mussolini era un valoroso mutilato, il sergente Gasperini, valtellinese, anche per lui il sovrano ebbe parole di elogio e fece segnare il suo nome ad un aiutante.
Sta di fatto che Mussolini il 23 febbraio 1917, in gravissime condizioni, verrà ricoverato all’ospedaletto di Doberdò, «dove trovai un’assistenza affettuosa e premurosissima»; «il capitano medico dott. Giuseppe Piccagnoni (di Cepina in Valdisotto, nda) direttore dell’ospedale di Busto Arsizio ed i suoi assistenti mi curano come se fossi un loro fratello».
Come non bastasse l’ospedaletto, nonostante la croce rossa sul tetto, il 18 marzo fu bombardato da un aereo nemico: «...un polverone bianco e denso si diffonde dalle camerate sulle scale, gli urli riempiono l’edificio… tutti i feriti della camerata li hanno trasportati nella mia. Il dott. Piccagnoni stava operando un ferito gravissimo. Dopo lo scoppio è corso di sopra. Ha messo un po’ d’ordine. Ha rincuorato tutti. È stato ammirevole di calma e sangue freddo. Sistemati i feriti è tornato a terminare l’operazione».
Il dott. Giuseppe Piccagnoni proprietario dell’hotel Cepina, del quale Mussolini parlerà sempre con grande riconoscenza, terminata la guerra, e salito al potere Mussolini, saprà farsi ricambiare dal duce il favore. Così, nel 1935, quando il professor Piccagnoni ebbe bisogno di un aiuto perché la Levissima venisse riconosciuta dal Ministero della Sanità quale acqua curativa, e ottenere la concessione all’imbottigliamento, si rivolse a Mussolini, portando al Duce una foto ricordo che lo ritraeva, con sotto l'autografo: «Al Prof. Piccagnoni che mi salvò la vita: Benito Mussolini». Nasceva così, quella che col tempo diventerà la prima fonte di acqua minerale in Italia, e lo stabilimento che segnerà fino ad oggi la storia del piccolo Comune di Valdisotto.
Carlo Trotalli
(dal Diario di guerra di Benito Mussolini)