Spesso si organizzavano in parrocchia le recite per qualche festività. Le prove si facevano nello stanzone dell’oratorio o nell’abitazione di qualche parrocchiana. Stavamo preparando la recita per Natale quando ci spostammo tutte in casa di una sarta per mettere in prova e cucire a macchina i costumi di scena.
Mentre eravamo al lavoro, si affacciò nella stanza una bambina bionda, magra e smunta, che subito fu presa in braccio dalla madre e fatta accomodare in una poltroncina nell’angolo in cui batteva il sole. Tra una prova e l’altra si venne a sapere che la bambina si chiamava Alba e soffriva di una malattia sconosciuta per cui non esistevano rimedi.
Alba non sarebbe arrivata a primavera, questo il verdetto dei medici che la madre ci riferì sottovoce, fra le lacrime.
Quel giorno non combinammo granché, e tutte lasciammo il bel villino immerso nel verde con il petto gonfio di tristezza, per la piccola Alba che non avrebbe visto la prossima fioritura del giardino della sua casa.
Continuai a pensare ad Alba tutta la sera e nei giorni seguenti, arrivando a formulare l’idea che già nel nome la bambina portasse scritto il suo destino, l’alba di un giorno breve senza tramonto, cogliendo in ciò la stessa malinconica bellezza di un bocciolo di rosa che spazzato dalla tempesta non arriverà ad appassire. Ma poi mi ribellai all’idea di una tale predestinazione, e pregai tanto per la guarigione della piccola, a dispetto di quanto i medici avessero sentenziato, perché – mi dicevo – se la malattia era sconosciuta anche il rimedio era solo da scoprire. Pregavo perciò che Alba resistesse fino a quando non fosse stata trovata la medicina che le avrebbe ridato la salute, e indirizzavo le mie preghiere a Gesù, che più di tutti poteva capire l’ingiustizia di una morte tanto precoce.
A maggio Alba colse le rose del suo giardino e il Natale successivo partecipò alla recita nella parte dell’angelo con la tromba. Si disse che il farmaco giunto dall’America, su richiesta del vescovo diocesano sollecitato dal nostro parroco, avesse fatto miracoli, ma io credevo di sapere come fossero andate effettivamente le cose e tra me gioivo e tremavo: Gesù aveva accolto le mie preghiere e aveva provveduto. Avevo pregato tanto ed ero stata esaudita, la forza della preghiera poteva spostare le montagne ed io imparai a pregare anche mentre dormivo.
Tutti noi piccoli cristiani eravamo chiamati a riparare le offese, i sacrilegi e gli oltraggi commessi contro la santa madre chiesa sulla faccia della terra. Un’impresa spaventosa che non si sapeva come affrontare, non conoscendo neppure il significato e la portata di certe parole. Ma tutto si risolse con l’aiuto della suora, che dopo averci spiegato con alcuni esempi la gravità del sacrilegio e dell’oltraggio – fare la comunione in peccato mortale o masticare la particola invece di ingoiarla intera – ci fece recitare la preghiera di adorazione e di riparazioni che era veramente commovente e straziante, specialmente in certi punti in cui l’amore di Dio si mischiava col sangue del divino Figlio, sacrificato per la nostra salvezza. Oh no, non è giusto – si ribellava la mia anima in difesa dell’amatissimo Gesù – risparmia il Figlio tuo, salva il tuo Unigenito e prendi la tua umile serva in sconto dei peccati del mondo! deh!
In quel periodo mia madre mi portò dal medico di famiglia, Ugo Rodelli, che in tempo di guerra aveva spalato tra le macerie per estrarre morti e feriti di cui si prese cura in ogni caso, e il dottore senza troppo indagare sul mio stato di salute, che non presentava particolari patologie a parte il fegato ingrossato e una forma di debilitazione conseguenza dei patimenti e privazioni della primissima infanzia sotto le bombe, prescrisse iniezioni ricostituenti per un mese – “poi ci rivediamo” – che mi fece la levatrice di zona.
Saranno state le punture del dottor Rodelli, sarà stato che intanto la scuola era finita ed io scorrazzavo per i prati assolati ingozzandomi di cardi e del nettare dei fiori da succhiare, sarà che intanto lentamente ma crescevo e nuove curiosità mi attiravano dandomi da pensare, il fatto è che mentre mi riprendevo mi passava la mania di pregare ininterrottamente, come le vecchine sdentate che stavano sempre a masticare mele secche e litanie.
L’istituto delle suore non era parificato e la mia classe si trasferì alla scuola pubblica al Sacro Cuore per frequentare la quinta elementare e poter dare gli esami di Stato. Lasciammo il villino color canarino a due piani, posto fra due viali alberati, e trovammo una sistemazione in un’aula del decrepito ex collegio Ancelle del Sacro Cuore di Gesù, convertito in Istituto di Gesù Divino Operaio, che era enorme e faceva un tutt’uno con la Chiesa e l’oratorio, in gran parte ancora occupato dagli sfollati della Seconda guerra mondiale.
Smessi i severi grembiuli neri con il colletto bianco rigido e il fiocco vaporoso, si passò al grembiule bianco sempre macchiato d’inchiostro e ad un’altra età che non era più quella dell’infanzia, pur conservandone ancora il candore.
Eravamo cresciute sotto il manto della madonna e i gonnelloni delle brave suore, in un ambiente accogliente e curatissimo, e ora nello stanzone affumicato rimbombante di richiami e grida, nello squallore dei corridoi imbrattati di scritte e di sporco, nei bagni impraticabili e maleodoranti, ci si scontrava con una realtà fino ad allora nascosta o forse ignorata, con cui prendere dimestichezza se non uniformarsi.
La scuola pubblica fu per me il rovescio della medaglia, l’altra faccia dell’umanità. Quella laica e pensante, imperfetta e responsabile.
Madre Rosa mi aveva condotto amorosamente e inflessibilmente sulla via della rettitudine evangelica, liberamente interpretata, la mia maestra con l’abito attillato e il rossetto m’insegnò col suo comportamento, e forse senza averne l’intenzione, a distinguere il lecito dall’illecito, a ribellarmi a soprusi ed abusi, a difendere la dignità di tutti non solo la mia.
Ebbe inizio quell’anno il conflitto doloroso e vitale che mi avrebbe squassato la vita e la mente, dandomi in cambio la possibilità di acquisire una mia coscienza che non fosse precostituita e avvilita da dettami indiscutibili, ma desta e critica in primis nei miei stessi confronti. Un processo di decostruzione e lentissima ricostruzione durato decenni, iniziato dopo un lungo periodo di blocco e di lacerazione insanabile, cui dette l’avvio la semplice equazione di un giovane sacerdote, don Ugo, che non smettevo di tormentare – al confessionale e in parlatorio – con il rostro della mia soffertissima indagine. Troppo ero stata indottrinata mentre il mio spirito vagava per suo conto, innocente e curioso.
Don Ugo tirò fuori una penna e un pezzo di carta, tracciò la formula e scappò via lasciandomi a battermi con il rebus dei rebus: D-io = Equilibrio.
Maria Lanciotti
Alla ricerca della spiritualità
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