Attaccato al muro, dietro alla cattedra, c’era il cartellone dei fioretti, lavoretti in carta di tante forme – fiori cuori stelle uccellini – che si appuntavano accanto al nome dell’alunno meritevole. C’era tutto l’elenco dei nostri nomi, sul tabellone, e si faceva a gara a chi potesse vantare più fioretti. Specialmente nel periodo della Quaresima, il cartellone fioriva come i prati in primavera.
I fioretti si guadagnavano con sacrifici e rinunce, ma anche con buoni propositi da mantenere in tempi stretti, da offrire al Signore o alla Madonna. Io, per mio conto, preferivo offrire i fioretti a Sebastiano, mio santo prediletto da quando l’avevo visto raffigurato in un quadro alle catacombe sull’Appia Antica. Legato a un palo, quasi nudo, solo un panno celeste attorno ai fianchi, trafitto dalle frecce per tutto il corpo fino al collo, con gli occhi imploranti rivolti in alto – dove io vedevo solo il soffitto ma forse lui vedeva lo sguardo pietoso di Dio – il povero san Sebastiano, così giovane e martoriato, si era conquistato tutta la mia devozione. Per lui raddoppiavo i fioretti – i miei erano a forma di trifoglio: “Io vi adoro, o Dio, in tre Persone, e mi annichilo innanzi alla Vostra Maestà…” – ero gentile e servizievole a casa e a scuola, non tiravo sassi e non facevo sgambetti, non dicevo brutte parole e scacciavo i cattivi pensieri, ed ero capace persino di rinunciare a mangiare la merenda e a bere quando avevo sete. Fino a che i trifogli non entrarono più sul cartellone e la suora aggiunse un cartoncino per appuntarli, ma poi mi prese in disparte – ero magra e pallidina, si era nel dopoguerra – e mi disse che i fioretti sono una bella cosa ma non occorre esagerare, Gesù e la Madonna accettano anche le buone intenzioni. Capii che era quello il momento, o allora o mai più, per rivelare a chi offrissi in verità i miei fioretti, ma non riuscii a spiccicare parola sentendomi in colpa, mia massima colpa, per la trasgressione – le regole parlavano chiaro: i fioretti si offrono al Signore o alla Madonna Santissima – e per il peccato di omissione – chi aveva il coraggio di confessarlo alla suora? – come non bastassero quelli di pensiero, parole e opere. Ma se Dio ci ha creati per la sua gloria, perché ci ha fatto peccatori?
Poi arrivò l’Anno Santo, il mio primo Giubileo.
– Madre, che vuol dire Giubileo? – E la suora ci spiegava che il Giubileo è l’anno della remissione dei peccati, della conversione e della penitenza; che inizia con l’apertura della Porta Santa – tre colpi con un martello d’avorio e d’argento – e dura un anno, da Natale alla Befana dell’anno seguente, e che anticamente veniva annunciato col suono d’un corno d’ariete – il maschio della capra – detto dagli ebrei yobel, da cui prende nome il Giubileo, che vuol dire giubilo, gioia e festa. Poi c’era il fatto delle indulgenze, parziali e plenarie, che in quel periodo se ne potevano guadagnare tante, fino a salire – a certe condizioni – dritti in paradiso evitando il passaggio in purgatorio. E noi tutti lì in attesa di sapere il seguito, ma la suora chiuse l’argomento dicendo che se ne sarebbe riparlato più in là, quando avremmo conosciuto meglio la dottrina. In compenso ci disse che forse avremmo partecipato anche noi al Giubileo, se si riusciva a organizzare il viaggio per tutti. Intanto dovevamo scrivere i nostri pensierini su quanto si era detto, e tutti noi alunni volenterosi a masticare l’asta di legno della penna in cerca d’ispirazione.
Alla fine ci andammo, al Giubileo, cantando e pregando per tutto il viaggio su un grosso camion coperto da un telo, e poi in piazza san Pietro, in fila per entrare nella più grande basilica cristiana del mondo. Ricordo vagamente questa gran folla ondeggiante penetrare come una fiumana nella vastità dei saloni, e un trono con lo schienale altissimo viaggiare come sospeso in aria, con il papa tutto vestito di bianco che mentre passa benedice i fedeli di tutta la terra, giunti a Roma – ci era stato detto durante l’attesa – con la Carta del pellegrino distribuita in quell’anno per favorire gli spostamenti. E poi mi sento sollevare fino a lui, il Sommo Pontefice, con il compito di leggere i nostri pensierini sull’amore e sul perdono scritti in classe, e durante tutta la lettura – forse qualche minuto, forse un’eternità – il papa che mi dà i buffetti sulle guance e mi accarezza la testa, ed io che me lo vorrei abbracciare ma è già passato oltre.
In quel Giubileo del 1950 – il 24°, detto “L’anno del gran ritorno e del gran perdono” – oltre alla canonizzazione della beata Maria Goretti (“O giovani, fanciulli e fanciulle dilettissimi, pupille degli occhi di Gesù e dei Nostri, – dite – siete voi ben risoluti a resistere fermamente, con l'aiuto della grazia divina, a qualsiasi attentato che altri ardisse di fare alla vostra purezza?”) fu proclamato dal papa Pio XII il dogma dell’Assunzione, secondo cui la Madonna alla sua morte è volata in cielo anima e corpo. Esattamente il 15 agosto. Un altro mistero glorioso su cui lambiccarsi il cervello, un’altra novena da mandare a memoria: “…sia benedetta, o Maria, l’ora nella quale vi degnerete di ricevere noi tutti in Cielo. Ave”.
Maria Lanciotti
Alla ricerca della spiritualità
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