Io credo che ciò che più impressiona, e forse affascina, guardando un film giapponese – più che la descrizione di abitudini, di costumi, in parte diversi dai nostri – è la resa di una mentalità che ci è estranea, e che non è soltanto attribuita ai personaggi del film, ma è interna al punto di vista da cui la vicenda è raccontata.
Gruppo di famiglia con tempesta, un film dell'autore giapponese Kore-Eda, è il racconto di un piccolo, ordinario dramma familiare, un racconto tutto intessuto – sia pure con discrezione, senza proclami – di una morale che difficilmente potremmo ritrovare in un film, mettiamo, americano; che sembra specifica se non del Giappone, dell'Oriente (se mi passate questo termine tanto generico).
Il dramma è quello di un uomo di mezza età, divorziato da una moglie dalla quale ha avuto un figlio, che continua ad amare quella donna; che egli pedina, spia, quando lei si incontra con un altro uomo; che vorrebbe ostinatamente riconquistare.
E la morale che, sottilmente, trapela da tutto il racconto, è che la sua ostinazione è vana; che l'amore, e la fiducia, della moglie per lui, è ormai svanito; che l'uomo insomma farebbe bene a mettersi il cuore in pace.
E se è una morale che ha un sapore orientale, è perché predica la rinuncia agli attaccamenti ossessivi, il “lasciar fare”, l'accettazione del nostro destino: quegli insegnamenti che ci siamo abituati ad associare all'Oriente e in particolare alle dottrine buddhiste.
Se il film risulta un piccolo gioiello, non è soltanto per il tono originale, allo stesso tempo lieto e disperato, che quella morale conferisce al racconto.
Ma anche per il disegno sapiente, a piccoli tocchi, senza la minima forzatura, con cui sono resi personaggi ed ambienti.
Il protagonista è uno scrittore, autore di un solo romanzo, con il quale a suo tempo ottenne un discreto e, a quanto si dice, non immeritato successo, ma da anni vittima di una crisi creativa; tanto che per sbarcare il lunario e contribuire quando e come può al mantenimento del figlio, lavora nell'agenzia di un detective e si dà al gioco d'azzardo.
Più che la frustrazione, la sua fisionomia tormentata e il suo comportamento torpido, viziato, danno un'impressione di energia stagnante. Forse perché più che alla creazione di un nuovo romanzo, alla ricerca di un lavoro più adeguato al suo talento, quell'energia è tutta impiegata alla soluzione di un problema irrisolvibile.
È sua madre che lo conosce fino in fondo, e lo ama nonostante le sue debolezze – che, a quanto pare, sono simili a quelle di suo padre – che dà di lui una diagnosi esatta quando afferma, parlando in apparenza in astratto: “Non ho mai capito perché gli uomini non riescono ad amare il presente. O si affannano a rincorrere quello che hanno perso. O continuano a sognare l'impossibile”.
Ma forse il ritratto più bello che offre il film è quello del bambino conteso tra il padre e la madre, che ha l'aspetto prezioso, la lentezza studiata dei gesti, il carisma quasi, di un piccolo sultano.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 10 giugno 2017
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