Mio padre diceva: “La chiesa è di tutti e non si paga per entrare” e intanto metteva il suo obolo nella cassetta delle offerte. Io osservavo e non capivo: si paga o non si paga? la domanda che mi ponevo cui altre ne seguivano.
La chiesa era grande e bella, con tanti fiori e tante luci, paramenti e arredi di lusso. Ma Gesù era nato in una stalla e aveva predicato la povertà, e c’era la sua parola che spesso veniva ricordata dal pulpito: “Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio”, mentre a chi povero non era, diceva: “Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione”.
Gesù era povero e stava dalla parte dei poveri, ma stava anche dalla parte della chiesa che non sembrava povera. Anzi.
Mio padre, che occupava sempre i primi banchi, tirava fuori il fazzoletto bianco accuratamente stirato e lo allargava prima d’inginocchiarsi per non sciupare l’abito della festa – e tutte le feste passavano per i banchi della chiesa – e lui che nella vita pratica era uno che ragionava a filo di logica, di fronte al mistero della religione sembrava perdere la lucidità. E mandava me in confusione. Io me lo studiavo mio padre – prima a distanza, quando bambini, uomini e donne stavano in file separate, e poi al suo fianco quando questa separazione fu abolita – e lo vedevo trasfigurarsi, mentre cantava e pregava, lo sguardo fisso all’altare su cui cadeva, filtrata dalle grandi vetrate dipinte e colorate, una luce che non sembrava di questo mondo, calda e abbagliante, che illuminava i volti come ammorbiditi da un fuoco sacro. E più lo guardavo e meno capivo. Solo una sensazione di perdita quando mi sembrava di non riconoscerlo, la sua faccia onesta di tutti i giorni cancellata dalle emozioni del momento – dall’afflizione alla gioia alla commozione al rapimento – secondo i passaggi della celebrazione.
Per il mio decimo compleanno mio padre mi regalò le Massime eterne di S. Alfonso M. De’ Liguori, edizione nuovissima 1952. “Sacro Cuore di Gesù, venga il tuo Regno!” e l’immagine del Cristo con il capo raggiante di luce, il cuore coronato di spine nella mano sinistra e l’altra mano aperta a mostrare l’orrendo squarcio della crocefissione. Un Cristo che non era il piccolo Gesù, mio amico e confidente, ma una figura sublime e severa con un buco nel petto che sprizzava scintille.
Un “Giardino di devozione” in cui m’immersi e mi persi.
Iniziava con Preghiere del mattino (tassativamente: appena svegliato): “Quando sarà, o mio Dio, ch’io aprirò questi miei occhi per vedervi nei giorni eterni lassù in Paradiso?” e già un brivido gelato correva lungo la schiena, mentre si andava avanti con un segno di croce (indulgenza di 50 giorni e di 100 se fatto con l’acqua benedetta), ringraziamento e offerta delle azioni della giornata: “Vi ringrazio di avermi creata, fatta cristiana e conservata in questa notte…” supplica finale: “Preservatemi dal peccato e da ogni male… Così sia”. Molto simili le preghiere della sera (tassativamente: da recitare prima di coricarsi, inginocchiati ai piedi del letto) che comprendevano un breve esame di coscienza e l’Atto di Dolore, e una sfilza di giaculatorie a Gesù, Giuseppe e Maria, spiri in pace con voi l’anima mia. E si arrivava finalmente all’ultimo così sia della giornata del buon cristiano.
Quel “così sia!”, quando lo pronunciavo, lo sentivo potente più di una bacchetta magica. Segno della divina onnipotenza che ovunque aleggiava e m’includeva nella sua sfera. Ma i punti oscuri lavoravano come pulci voraci nei miei luoghi nascosti, procurandomi un prurito incessante. Troppe domande “per un dio che nun se vede”.*
Quel libricino lo conservo ancora dopo tanti decenni che mi è stato regalato (da mio padre: perché non mi regalò un libro di favole?) e ancora mi turba. Basta sfogliarlo per risentire le pulci saltellarmi addosso. La preghiera a san Luigi Gonzaga – parte quinta, la devozione ai santi – per “impetrare la Santa Purità”, mantiene tutta la sensualità (o meglio lussuria, tra i sette vizi capitali forse il più aborrito dalla morale cattolica) e la perversione di un masochismo indotto da una repressione feroce, che quasi invoca una confessione estorta:
1. Angelo in carne, Luigi, riguardo con tenerezza le vostre pupille dalla verginale purità così ben custodite! Piango e detesto la troppo rea libertà, che conosco di avere accordato alle mie. Voi ottenete ai miei occhi, che in seducenti oggetti non s’incontrino, o almeno che in essi non si fermino.
2. Mio Angelico Luigi, ricordo con devota ammirazione il freno che, fino ai più teneri anni, Voi poneste alla vostra lingua! Ah! si convertano una volta alle divine lodi queste mie labbra, colle quali tanto ho peccato, e in tante forme pecco ogni giorno.
E avanti così con orecchi, gola, mani e cuor mio, che sembrerebbero creati apposta dall’Eterno per farci dannare.
Ora pro nobis, sancte Aloysi. Oremus.
Altro elogio alla “castità eroica” è riservato a Maria Goretti, martire della purezza, canonizzata il 24 giugno 1950 da Pio XII: “O santa Maria Goretti, che confortata dalla divina grazia, a soli dodici anni, non dubitasti di versare il sangue e di sacrificare la stessa vita, in difesa della tua purezza verginale, deh! volgi lo sguardo sulla misera umanità tanto deviata dal sentiero dell’eterna salute. Insegna a tutti, ma specialmente alla gioventù, con quanto coraggio e con quale prontezza si debba tutto posporre all’amore di Gesù, anziché offenderlo e macchiare l’anima propria col peccato. Ottienici poi dal Signore vittoria nelle tentazioni, conforto nei dolori della presente vita, e la grazia che qui prostrati ti domandiamo… e fa che un giorno possiamo godere vicino a te le glorie imperiture del Cielo. Così sia. (300 giorni d’Indulgenza)”.
Il funerale della piccola colona dell’Agro Pontino – iscritta alle Figlie di Maria quando era già agonizzante all’ospedale di Nettuno – vittima del bisogno e di una società ingiusta e accaparratrice, fu organizzato in pompa magna dai vari poteri in lizza, capeggiati ovviamente dai Pastori della chiesa che tante greggi richiamarono alla strepitosa manifestazione, coronata dalla morale della favola impartita da un grosso prelato: “... E tu, fanciulla eroica, insegna alle nostre fanciulle, e a tutte, come si lotta e si muore in difesa della purezza. Intercedi presso la Vergine Immacolata particolarmente per la nostra gioventù e per le Figlie di Maria, della cui schiera divenisti sorella nell’ultima ora! Tu, che tutti noi speriamo salutare un giorno anche qual loro seconda protettrice!”
Quando, in occasione del Giubileo, le suore ci caricarono su un pulmino e ci portarono al santuario di Nettuno dov’erano custodite le spoglie di Maria Goretti, una statuetta di cera ricoperta di raso e a piedi nudi, tutte noi bambine facemmo un giuramento a noi stesse, non si sa quanto spontaneo: difendere la nostra purezza a costo della vita. Ma nessuno ci aveva ancora spiegato che cosa fosse la purezza, se non quella dei gigli che stordivano con il loro profumo.
Maria Lanciotti
* Trilussa, “La ninna nanna de la guerra” (cfr. YouTube).
Alla ricerca della spiritualità
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