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Maria Lanciotti. Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica 
Alla ricerca della spiritualità – 3
24 Maggio 2017
 

A maggio si celebrava il mese mariano. La sera dopo la funzione si andava in processione per le vie del paese. Tutto profumava di rose: la chiesa, i giardini, le strade, le parole, gli sguardi. E una di quelle sere ricevetti la prima letterina d’amore da parte del ragazzino più bello e corteggiato della scuola.

Non avevo ancora undici anni. Quando lessi il contenuto del bigliettino, poche righe che parlavano di api e di fiori e di edera che “dove si attacca muore”, tutto s’intensificò – profumi, musica e canti – e quel primo batticuore si mescolò e confuse al sentimento religioso acuito dalle liturgie mariane cui partecipavo con trasporto.

Ci fu un segreto scambio di letterine col mio piccolo innamorato, che però non sfuggì alla mia maestra, madre Rosa; una domenica mattina dopo la messa mi prese per un braccio e mi portò nella cappellina dell’istituto dove a voce bassa e terribile prese ad accusarmi di chissà quali peccati. Io non mi difendevo, mi erano state insegnate solo la dottrina e l’obbedienza. A casa, a scuola, in chiesa. Avevo tradito la sua fiducia e quella delle consorelle, arrivò a dire madre Rosa, loro già mi immaginavano sui santini come piccola martire cristiana, in difesa della verginità. Avevo fatto piangere Gesù, l’immancabile conclusione, le stesse parole che sempre mi sentivo ripetere a ogni mio sbaglio anche involontario o a qualche misero tentativo di ribellione destinato in partenza a naufragare in un pianto di contrizione.

Uscii da quella lavata di testa con una domanda che sarebbe rimasta troppo a lungo senza risposta: che male c’era a volere bene?

La colpa era legata alla verginità, questo mi fu presto chiaro. Quando se ne parlava a scuola nell’ora di religione o al catechismo, la verginità – “Madre, che vuol dire verginità?” “Silenzio!” – era riferita sempre alla Madonna; anche nel Credo si diceva che Gesù era nato da Maria Vergine, concepito dallo Spirito Santo – “Madre, che vuol dire ‘concepito’?” “Silenzio!” – che era una colomba bianca. Poi c’era il peccato originale che sembrava molto più grave d’ogni altro peccato perché non si finiva mai di scontarlo, e tutto per colpa di un serpente ma anche di Eva che si era fatta convincere a cogliere la mela. Mentre Maria Vergine il serpentello lo teneva schiacciato sotto il piede nudo, come si poteva vedere nei santini e nelle statuette, e questo era il segno della sua vittoria: aveva vinto la tentazione, aveva vinto il male. Ecco allora che la verginità, qualunque cosa fosse, dava forza e coraggio e rendeva invulnerabili contro la seduzione – “Madre, che vuol dire seduzione?” “Silenzio!” – del diavolo.

Il diavolo era un altro mistero. Tutto comincia con Lucifero, il più bello e luminoso fra gli angeli che però si ribella a Dio, sfida le forze celesti ma perde la guerra e precipita negli inferi, e lì prende il nome di Satana e diventa il capo di tutti i demoni. Ma allora perché Dio lo aveva creato? Non sapeva che gli si sarebbe rivoltato contro, essendo onnisciente? E cioè che sapeva tutto, ma proprio tutto, anche quello che deve ancora accadere, in ogni tempo e in ogni luogo, come ci aveva spiegato la suora.

E qui si apriva una voragine che mi risucchiava al fondo di un mistero senza fondo e allora cercavo di pensare ad altro.

Ma dove stai con la testa? – mi veniva spesso rimproverato e io non provavo nemmeno a spiegare ciò che in effetti non capivo, affascinata e stordita dalla massiccia istruzione religiosa che giorno per giorno mi veniva impartita rendendomi quasi incapace di ragionare. Tutto si era aggravato da quando avevo ricevuto il sacramento dell’Eucarestia e della Confermazione che, insieme al Battesimo, mi rendeva “testimone vivente della fede cristiana”.

Mi ero preparata a quell’evento come al giorno più bello della mia vita. Non era una mia idea, me lo dicevano tutti quelli che ‘sapevano’: insegnanti, genitori, parenti e vicini di casa, tutti cattolici praticanti.

Tutta vestita di bianco, col volto coperto dal velo, quel giorno aspettavo tremante di ricevere per la prima volta il corpo di Gesù e volevo che trovasse la migliore accoglienza, che trovasse dentro di me il profumo dei campi lavati dalla pioggia e dalle lacrime versate per le sue sofferenze. Sofferenze patite anche per i miei peccati, commessi chissà come ancora prima di nascere.

Al momento di ricevere l’ostia consacrata, carne e sangue di Cristo, quasi persi i sensi. Scambiai quel mancamento – dovuto al digiuno da non rompere nemmeno con un sorso d’acqua e all’aria satura d’incenso nella chiesa affollata – per l’‘estasi’ di cui le suore spesso ci parlavano nel raccontare storie di santi, soprattutto di giovani sante e martiri, che nella preghiera e nel digiuno e nell’infliggersi pene corporali in sconto dei loro e altrui peccati cadevano in deliquio completamente assorbiti dalla potenza divina. E se mi sentivo svenire era perché Gesù mi era sprofondato dentro e il mio corpo non era più mio ma era la casa del Signore che avrei dovuto mantenere sempre in ordine e lustra.

Gesù, fammi morire – fu tutto quello che riuscii a formulare nella testa annebbiata, e non era un mio pensiero originale ma scaturito dalle narrazioni durante la catechesi di fanciulli volati in cielo proprio nel giorno del loro primo incontro con Gesù, non avendo retto all’emozione e al carico dello Spirito Santo imposto dal vescovo. Una benedizione per loro, morti nel candore e senza più occasione di peccare, con il paradiso assicurato per l’eternità.

Gesù, fammi morire – pregai ancora, ma non ci fu verso, la vita mi fu risparmiata perché io la dedicassi a chi me ne aveva fatto dono, e cioè al Padreterno.

Il giorno più bello della mia vita trascorse in un serrato dialogo interiore con l’Altissimo che in me alloggiava, cui chiedevo la grazia di non abbandonarmi mai alla mia miseria.

I santi si fustigavano e s’imponevano il cilicio, a me povera peccatrice in erba non restava che inginocchiarmi il più spesso e il più a lungo possibile sui banchi ruvidi della chiesa e battermi sconsolatamente il petto scarno dove si contavano le costole.

Non mi sentivo votata al martirio ma stando ai racconti della vita dei santi che avevano popolato la mia mente fin dalla primissima infanzia, la via del supplizio appariva come la scorciatoia per il paradiso.

 

Le storie più agghiaccianti – e formative – mi erano state propinate nella cittadina all’ombra della Rocca dei Borgia, disseminata di chiese e chiesole e di abbazie benedettine, in cui di frequente trascorrevo le vacanze estive, ospite di parenti carissimi, e dove la religione era pane quotidiano. I forni dei racconti dei santi non si spegnavano mai. Ad alimentare le vicende di queste anime elette, concorreva la fantasia popolare che molto ci ricamava sopra.

Ogni luogo ha i suoi santi prediletti, in questo paesotto – tra le tante città dei papi nel Lazio – furoreggiavano san Benedetto e santa Scolastica, i cui nomi venivano imposti a buona parte dei neonati locali e tramandati all’infinito. Si narrava che questi due bimbi, figli gemelli di un console romano e di una nobildonna di Norcia che morì nel darli alla luce, rifiutando i privilegi della loro casta si dessero alla ricerca di Dio. Peregrinando per mezza Italia giunsero a Subiaco, dove Benedetto si acquartierò in quel che rimaneva della vecchia villa di Nerone, finché non incontrò un monaco che lo rivestì di un saio e lo indirizzò presso una grotta che si trovava su un monte impervio. In quell’umida e scomodissima grotta il giovane visse da eremita per qualche anno, vincendo le tentazioni della carne – qui il racconto si faceva da brivido rosa – buttandosi a corpo morto fra le ortiche che si trovavano nello scapicollo sottostante, in cui spuntò un roseto tuttora prospero. Si poteva anche rilevare, sugli scogli dell’erta che porta al monastero del Sacro Speco, un gioiello di architettura incastonato nella roccia, l’impronta del ginocchio di Benedetto quando cadde prostrato al cospetto del luogo che già col suo arrivo aveva santificato.

Ancora più conturbanti erano le storie dei martiri. Allora la fantasia si scatenava nell’immaginare i supplizi che con tanto zelo venivano inferti ai poveretti, ben descritti anche nelle immaginette che ci venivano date per premio all’occasione. Raccapricciante la fine di San Lorenzo, che messo ad arrostire su una graticola dice ai suoi carnefici: “Giratemi, che da questa parte sono cotto!”. Una frase che lo spirito popolare aveva fatto propria, e si sentiva spesso ripetere scherzosamente quando dinanzi al fuoco del camino o sotto il calore spietato d’estate nei campi, qualcuno si sentiva bruciare.

Ancora peggiore, se possibile, la fine di santa Lucia. Fu cosparsa di olio e di pece bollente, le furono cavati gli occhi, ma ci volle una pugnalata alla gola per mettere fine alle sue sofferenze. E tutto perché si rifiutava di rinnegare la sua fede cristiana. Nelle immaginette la santa appariva bella e florida, con la palma in una mano e nell’altra un piattino con gli occhi che le erano stati cavati, che però splendevano azzurri nel volto sereno. Come poteva essere? Semplice, quando si muore per amore di Cristo e si va in cielo, il corpo terreno si abbandona come un vestito vecchio e si rimane giovani e intatti per l’eternità.

Decapitati, sbranati dalle belve, affettati dalle lame, presi a frecciate, a sassate, impalati, squartati, crocefissi e dati alle fiamme, i santi martiri sorridevano sempre cantando le lodi al Signore. Lo testimoniavano i santini elargiti come cioccolatini, ma solo ai bambini buoni, obbedienti e studiosi e formati al divino insegnamento. E niente di niente agli altri bambini.

Un ragazzino della mia stessa età, frequentava anche lui le elementari ma alla scuola pubblica, vedendomi sfogliare i santini che avevo faticosamente accumulato con tanti “fioretti”, un giorno mi disse: “Voi cattolici state sempre lì a baciare pezzetti di carta”. Si chiamava Giuseppe, detto Peppuccio. La sua famiglia si era da poco trasferita dalla Sicilia e subito nel quartiere alle porte di Roma si era sparsa la voce che fossero protestanti. Non si sapeva di preciso cosa volesse dire ma il senso era chiaro: se uno protesta vuol dire che è contrario a qualcosa e loro erano contrari alla nostra religione (così come noi eravamo contrari alla loro). E siccome la sola vera religione è la nostra, come sapevamo a memoria – “Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica” – Peppuccio stava dalla parte sbagliata e io lo volevo “redimere”. Volevo cioè liberarlo dall’errore e dal male, che è l’impegno di ogni buon cristiano verso i fratelli che non vivono nella grazia del Signore, come ci spiegavano le suore. Misi così tanta foga nella mia opera di salvataggio che finimmo a fare a botte. Peppuccio mi strappò di mano il pacchetto dei santini ed io gli strappai i capelli. Accorsero le madri e ci separarono, ma intanto si era radunato un bel circoletto di gente ed era partita la disputa. Venne fuori che Peppuccio e la sua famiglia, che fino a un minuto prima erano da tutti considerati brave persone, erano stati mandati dal diavolo per spargere zizzania fra i timorati di Dio.

Una donna scarmigliata, con un pettine in mano, uscì a quel punto dal caseggiato e cominciò a urlare verso le finestre della famiglia siciliana, che proprio quel giorno ospitava dei parenti venuti dal paese. Era l’ora di pranzo. Nessuno si affacciò per ribattere, le persiane furono accostate e scese il silenzio nel piccolo appartamento al primo piano. La donna si ficcò il pettine nella matassa di capelli, piantò le mani sui fianchi e cominciò a urlare contro le finestre chiuse accusando la famiglia rintanata fra le quattro mura di avergli rubato il figlio, di averlo portato sulla cattiva strada e di averlo istruito al male. Per tutta prova, volando dentro la sua casa e riuscendone come un fulmine, sbandierò un libro che prese a stracciare pagina per pagina, mentre continuava a urlare le sue accuse contro i “protestanti”. Quella donna era analfabeta, come tante sue coetanee all’epoca. Disse che il libro l’aveva trovato nel cassetto del comodino del figlio, e l’aveva subito riconosciuto come “tentazione” per l’immagine di un uomo nero e barbuto e lo sguardo maligno, riprodotta sulla copertina. Nessuno sapeva allora che si trattava di Martin Lutero.

Il figlio ‘traviato’ era maggiorenne ed era a tutti noto che non voleva saperne di mettere piede in chiesa, nonostante le suppliche e le minacce della madre che cozzavano contro il mutismo del giovane. Una tragedia che si ripeteva ogni domenica e tutte le feste comandate, e squassavano tutto il vicinato. Che c’entrava il libro in tutto questo?

Io stavo in disparte e pensavo a quello che mi aveva detto Peppuccio: “Voi cattolici state sempre lì a baciare pezzetti di carta”.

 

Maria Lanciotti

 

 

Alla ricerca della spiritualità

3 (segue)


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