Si deve alla Cineteca di Bologna, nell'ambito della rassegna “Il cinema ritrovato”, la riproposta nelle sale, nella versione restaurata, di uno dei film più famosi e più belli di Woody Allen: Manhattan (del 1979).
Bellezza e verità, almeno in arte, si sa, non sono mai disgiunte tra loro. E se Manhattan è, appunto, tra i film più belli di Allen, è perché in esso con più pienezza, con più profondità, egli ha detto la verità su se stesso.
E mi riferisco così direttamente a lui perché al centro del film – circondato dalla scenario di New York, dai suoi abitanti, e in particolare quelli che appartengono all'ambiente artistico e intellettuale – c'è proprio Allen stesso, o meglio il personaggio che lui interpreta e che, con caratteristiche quasi invariate, si ritrova in certi suoi film precedenti e in tanti che a Manhattan seguiranno.
Si tratta, come è noto, di un intellettuale, occhialuto, blandamente nevrotico, eternamente innamorato di donne tanto più belle e spesso più giovani di lui, dotato di una parlantina fluviale e a volte straordinariamente spiritosa, e allo stesso tempo preda di furori e di cupezze adolescenziali.
Un grande cineasta russo, Andreij Tarkovskij, ebbe di Manhattan un'impressione penosa. Scrisse sui suoi diari che Woody Allen gli era sembrato un uomo bruttissimo, sgraziato, del tutto privo di fascino, e che tuttavia si riteneva irresistibile.
È un giudizio, credo, impietoso e ingeneroso, ma contiene dell'acume. Forse più che irresistibile, Woody Allen risulta come invulnerabile, come certe figure dei cartoni animati che sono inalterabili; incapace di essere intaccato dai suoi stessi dolori.
In Manhattan interpreta un autore di sketch televisivi, che si licenzia disgustato dai programmi che scrive, per darsi alla letteratura. Ma la sua professione ha uno spazio marginale nel racconto, occupato quasi per intero dalla sue avventure (o disavventure) amorose.
Egli si è da poco separato da sua moglie, che si è unita con un'altra donna con la quale alleva il figlio avuto dal marito. Questi convive adesso con una studentessa diciassettenne, in effetti innamorata di lui, ma i cui sentimenti egli, per una buona metà del film, un po' conformisticamente non riesce a prendere del tutto sul serio, proprio per la differenza di età rispetto a lei. Crede di aver trovato la donna giusta quando incontra una critica d'arte, un po' eccentrica, forse un po' svalvolata, con la quale, pure nella polemica, crea presto un'intesa. Va detto che tutte e tre le donne sono magistralmente descritte, grazie anche alle eccellenti attrici che le interpretano: Meryl Streep, Mariel Hemingway, Diane Keaton.
Tutto il dramma, il modesto dramma della vicenda, deriva dalla confusione del protagonista circa i suoi stessi sentimenti: si accorgerà tardi, forse troppo tardi, di essere innamorato della diciassettenne, mentre la donna relativamente più matura si rivela destinata a un altro uomo.
Dico che il dramma è modesto, in primo luogo perché non è detto che l'amore con la ragazza sia irrecuperabile. E poi perché avvertiamo che, comunque, il protagonista avrà tanti altri amori, felici e complicati proprio come quelli che il film ci ha raccontato, senza che il suo piacere di vivere sia davvero compromesso.
Manhattan è girato in bianco e nero, certo perché così le immagini di New York più ricordano quelle dei classici film americani, che quel cinefilo che è Allen – tanto l'autore, quanto il personaggio – certamente ama.
E in questo mondo, che per metà appartiene all'immaginario e per metà alla realtà, con le sue gallerie d'arte, i suoi musei, i suoi cinema d'essai, ma anche le sue strade brumose, le sue notti scintillanti delle vetrine dei ristoranti e delle insegne dei teatri, egli si muove del tutto a suo agio, come un pesce in un acquario ideale.
La soddisfazione che deriva dall'armonia tra il personaggio e l'ambiente intorno a lui, segna il pregio, ma anche il limite, di Manhattan e più in genere del cinema di Allen.
Nelle sue espressioni più riuscite – come in questo caso – è un cinema che infonde allo spettatore un senso di delizia; ma che manca del senso del dramma, di un'autentica problematicità. E quando il dramma e la problematicità sono cercate, pretese, risultano sforzate.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 20 maggio 2017
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