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Maria Lanciotti: La Rosa di Ferro
21 Dicembre 2006
 
Da dove venivano quelle vibrazioni? Tutti gli abitanti del villaggio ne avevano pieni il petto e la testa e quasi non connettevano più. Pensavano, gli anziani, che fosse il cuore del mondo a battere così, o tamburi di eserciti eternamente in marcia, o lo strumento ossessivo di un dio solitario. E tante altre ipotesi si facevano sulla fonte delle vibrazioni, ma nulla di certo.
Quel battito regolava riti e danze, accoppiamenti di animali e di uomini, sepolture e nascite.
Un giorno nacque un nano da una coppia di giganti. Una anomalia che si addebitò come tante altre alle vibrazioni che sconvolgevano ogni regola. I genitori chiamarono Nanos il loro strano figlio, lo affidarono alla clemenza del dio dei nani, e ripresero a procreare altri figli, giganti come loro.
Quella collina verdeggiante era stata vulcano, in tempi remoti; Nanos la esplorava continuamente da cima a fondo, palmo a palmo cercando la provenienza del suono, e niente altro gli importava della vita.
Benché diverso dagli altri, anche Nanos era soggetto alle stesse leggi del tempo: diventava vecchio, e la frenesia della sua ricerca cresceva con l'età.
Forse il dio dei nani s'interessò a lui – dopotutto gli era stato affidato – e Nanos ebbe la visione e subito partì.
Il sorgere del sole lo trovò a scorticarsi nel pertugio sottile, una ferita nella roccia, che prese a penetrare forzando fibre d'acciaio.
Giù, spingendo con la testa, e anche il corpo faticosamente avanzava, fra umori viscidi e rossicci. Giù, nella gola oscura, odorosa di muffe.
E Nanos rinacque infine nel ventre dell'antico vulcano.
L'essere incatenato batteva il martello sull'incudine al solito millenario ritmo, ma era ormai ridotto allo stremo; sbiancato dalla vecchiezza, curvato dall'incommensurabile fatica, conservava però la lucentezza del suo sguardo di antracite, col quale alimentava la forgia.
«Da quando? da quanto tempo lavori in questa fucina sotterranea, e chi ti incatenò, e cosa vuoi forgiare?», gli chiese Nanos.
«Un sogno m'incatenò. Sognai la rosa. Tu non puoi capire la bellezza della rosa che sognai. E fu per quella bellezza, che diventai tutt'uno con questo ceppo. Martello e martello, mi avvicino alla perfezione della rosa che sognai, e mai la raggiungo. Ho tanto dolore, sono così stanco che desidero ora la morte più di quanto non desiderai la rosa. Aiutami, nano, sono veramente esausto!»
Nanos era gigante nell’anima. Comprese il dolore e lo sfinimento dell'artigiano sognatore e li fece suoi.
Affrontò l'asprezza del rientro nell'utero roccioso, e tornò a morire infine nella luce che tramontava.
Ancora il martellare vibrava nell'aria, ma debole, sempre più lento.
Corse Nanos, corse sulle sue gambe corte; rotolando e sobbalzando sul pendio a tratti vellutato, a tratti sassoso, lacerandosi la pelle nella sterpaglia, raggiunse finalmente il cespuglio di rose selvatiche.
Colse la rosa canina, i petali color carne appena schiusi umidi di brina.
E corse Nanos, con la rosa tra le mani a coppa, inseguendo il suono ormai fievolissimo. E ancora a testa in giù nella strettoia, e ancora rinacque nel ventre della terra.
...
«Come ti chiami?» chiese Nanos al vecchio incatenato a un sogno.
«Sai? non lo ricordo. Tu chiamami come vuoi».
«Ti ho portato la rosa, Artista, l'ho trovata a valle; altre rose non fioriscono in questo luogo».
Artista, oppresso dallo sfinimento, accarezzò con gli occhi stupefatti i cinque petali, rosei e carnosi come mano neonata.
«Come potevi sapere che proprio questa è la rosa che sognai? e dimmi, perché in tanti secoli di lavoro non sono riuscito a riprodurre la sua forma? è davvero semplice, la sua forma. Dimmi, nano, perché non sono riuscito a realizzare il sogno?»
«Non so che dire, Artista. Ma so che ora questa collina ritroverà la sua pace, senza il battere del tuo martello. E anch'io trovo la mia pace, adesso. Chissà, forse quello che non potevi dare alla tua rosa era la levità, e il velo di rugiada, e il profumo del vento. Una rosa di ferro, io credo, non può lasciarsi andare al respiro della brezza, non più raccogliere il pianto della luna... forse... chissà...»
Ma Nanos parlava ormai da solo.
Il vecchio artigiano scivolava dolcemente a terra guardando, senza più vederla, la rosa aperta sul palmo della mano.
I suoi occhi perdevano lucentezza, la forgia cominciava a raffreddarsi.
 
Maria Lanciotti

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