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Gianfranco Cercone. “La tenerezza” di Gianni Amelio
29 Aprile 2017
 

In un film, anche il più modesto, è riprodotto non soltanto l'aspetto esteriore dei luoghi – delle città, degli ambienti – in cui si svolge, ma anche, in una certa misura, l'atmosfera, lo “spirito” del periodo storico in cui il film è stato girato.

Dico: anche nei film più modesti. Ma quell'atmosfera, quello “spirito”, sono tanto più sottilmente catturati nei film degli autori più sensibili.

Consideriamo l'ultimo film di un regista sovraffino, Gianni Amelio, intitolato La tenerezza, liberamente tratto da un romanzo di Lorenzo Marone.

Si tratta, in apparenza, di un racconto tutto stretto intorno alla vicenda soltanto privata di due famiglie.

La prima è quella di un anziano avvocato di Napoli, rimasto solo dopo che la moglie che lui tradiva platealmente è morta, forse si è come lasciata morire; e i due figli, per inveterati rancori conseguenti a questa disgrazia, si sono allontanati da lui, o lui li tiene lontani da sé.

La seconda famiglia, costituita da una giovane coppia di coniugi e dai loro figli ancora bambini, è in apparenza felice; ma è un'impressione del tutto superficiale, tanto è vero che anche tra loro esplode presto una tragedia, e tanto più devastante di quella che aveva colpito la prima famiglia. Il padre si suicida dopo avere ucciso i figli e sparato alla moglie.

Le due famiglie entrano in contatto casualmente: la famiglia della giovane coppia ha preso in affitto un appartamento antistante quello dell'anziano avvocato, separato soltanto dall'altro da un cortiletto all'aperto; cosicché i due appartamenti sembrano come rispecchiarsi l'un l'altro, così come, sottilmente, si rispecchiano le vicende dei loro abitanti.

In un primo tempo, l'avvocato sembra aver trovato nei nuovi vicini un conforto alla propria solitudine che pure sopporta con fierezza; un calore familiare a cui da tempo aveva dovuto rinunciare.

Ma quando la disgrazia travolge quella famigliola, e lui, in ospedale, si spaccia per il padre della giovane moglie, caduta in coma, per poterla assistere, non sembra animato soltanto dall'ansia patetica di mantenere un contatto che gli era ormai diventato indispensabile, con una persona che sostituisce la sua propria figlia; ma anche, forse, da un desiderio di riparazione per i torti commessi verso sua moglie, della cui morte prematura egli si sente responsabile. Una delle virtù del film di Amelio è l'allusività, per la quale le motivazioni dei personaggi non sono univoche e spiegate, come accade nei film più schematici o più grossolani. I sentimenti mantengono qui le ambiguità che hanno anche nella vita reale.

Sono entrato un po' nei dettagli della vicenda per focalizzare l'atteggiamento ambivalente nei confronti della famiglia che è al fondo del film. La famiglia è un luogo di oppressione, dal quale si può cercare di evadere attraverso un adulterio, o dimenticando le chiavi di casa, o nei casi più estremi, più disperati, attraverso addirittura la follia omicida. Ma allo stesso tempo la famiglia è l'unico soccorso alla solitudine, che qui appare una prigionia anche quella.

Intorno a questa problema, privata, preme Napoli, la cui umanità è evocata con umorismo, ma senza cadute nel macchiettismo: un'umanità che però non scioglie, non intacca, non guarisce il nucleo doloroso del racconto.

Forse perché, più che alla condizione umana, il film di Amelio, malgrado la sua conclusione un po' speranzosa, cautamente ottimistica, rimanda all'Italia intera, affetta da corruzione inveterata, da frustrazioni senza scampo, da livori razzisti; insomma: a quel senso di morte, di paralisi, di mancanza di prospettive ideali, che i film italiani da anni, ripetutamente registrano, e con tanta più efficacia i più belli, come questo di Amelio.

Il film si avvale di uno stuolo di interpreti di prim'ordine, tra i quali spicca Renato Carpentieri nel ruolo del protagonista.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 29 aprile 2017
»» QUI la scheda audio)



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