Il dolore, le disgrazie, o le piaghe di una società, possono essere oggetti di umorismo? La domanda è retorica, perché è noto che può darsi un umorismo nero che prende spunto da questi o da simili temi.
Ma come possono eventi che, a immedesimarsi anche soltanto un poco nei loro protagonisti, dovrebbero suscitare commozione, o indignazione, indurre invece quel particolare sorriso che è proprio dell'umorismo?
Io credo perché il puro umorista esercita nei confronti delle cose del mondo, belle o brutte che siano, un distacco contemplativo, una specie di ascesi. Forte della saggezza che matura da questo distacco, ciò che accade non lo sorprende mai né tanto meno lo sconvolge. Tutto gli appare regolato secondo un antico principio che distribuisce nella vita il dolore e la gioia, la giustizia e l'ingiustizia. Come l'Ecclesiaste nella Bibbia, anche lui potrebbe ripetere: “Niente di nuovo sotto il sole”. Se l'umorista sorride, magari un po' tristemente, è perché in ciò che osserva trova conferma a ciò che già sapeva.
Chiedo scusa di questa lunga premessa; ma è per dire che questa qualità alta di umorismo la si ritrova in un grande autore europeo, finlandese, Aki Kaurismaki, e in particolare nel suo ultimo film: L'altro volto della speranza (per il quale Kaurismaki ha vinto l'Orso d'Argento per la Regia al festival di Berlino).
Nel film si racconta di un profugo dalla Siria, giunto per nave, dopo varie tribolazioni, in Finlandia. Qui chiede asilo alle autorità. Ma l'asilo gli viene negato perché, a quanto pare, secondo il ministro degli esteri finlandese, ad Aleppo, la città siriana dalla quale l'uomo è fuggito dopo che la sua casa è stata distrutta da un bombardamento – ad Aleppo i cittadini non correrebbero rischi poi tanti gravi per la loro incolumità.
L'uomo starebbe per essere ricondotto forzatamente in patria, se non trovasse il modo di sfuggire ai poliziotti, e se il gestore di un ristorante non lo ospitasse in un magazzino, non gli procurasse documenti falsi e poi non gli desse un lavoro come uomo delle pulizie nel suo ristorante.
Non vi racconto i successivi sviluppi della vicenda, ma credo che tanto già basti a capire che si tratta di una storia che, purtroppo, non ha nulla di straordinario, che si indovina simile a tante altre.
Potrebbe essere materia di un nobile e tradizionale film di denuncia; o di un film lacrimoso, sentimentalistico.
Il modo in cui la racconta Kaurismaki è originalissimo, tutto suo.
I suoi personaggi, parchi di gesti, spesso immobili come fantocci, o come le figure di una vignetta umoristica; oppure solenni, ieratici, come gli attori di una sacra rappresentazione, non si comportano e non parlano in modo verosimile, non imitano le incertezze, le sbavature, degli uomini nella vita reale.
Ognuno di loro incarna in modo perfetto, cristallino, un diverso cliché.
C'è il profugo, animato da spirito di rivolta contro le ingiustizie del mondo, ma bisognoso di carità; i poliziotti e gli assistenti sociali, formalmente cortesi, ma espressioni di un Potere spietato; i nazizkin feroci senza finzioni, e ciechi, ottusi; e finlandesi di buon cuore, dalla generosità severa, senza smancerie.
Tutti clichés, stereotipi. Ma un cliché si forma allineando i tratti comuni di tanti uomini dello stesso tipo. E l'abilità di Kaurismaki è di raccontarci questa storia come se fosse in sostanza la ripetizione di infinite altre.
La ripetizione, è una vecchia regola della comicità, induce al riso. Ma dato l'argomento si tratta qui di un riso assai sconsolato.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 15 aprile 2017
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