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In libreria/ Aurelia Delfino. Danze 
La prefazione di Flavio Ermini
18 Aprile 2017
 

Il respiro dei sensi

 

E lì c’è il regalo

A. Delfino

 

 

Il mondo procede, ma non come vogliamo noi. Procede come vuole il nostro corpo. «Esisto solo ai contorni di me» conferma Aurelia Delfino. Esistiamo nell’ineludibilità del corpo, dei suoi sensi che consentono di fare esperienza del mondo e di nominarne l’orizzonte. Esistiamo nella pienezza del nostro essere fisicità e parola poetica.

È del corpo la capacità di capire le cose, di coglierne il significato e l’essenza; di avvertire ciò che a prima vista non appare. È del corpo la piena accettazione della molteplicità e del mutamento, dell’esperienza sensibile come via di accesso all’esistenza. Esistiamo solo riconoscendo la centralità del corpo nel pensiero; solo considerando prioritarie le sue ragioni, racchiuse – preziose come sono – nello «Scrigno esteso di carne / come la terra di vigna».

È proprio così. Ogni cosa del mondo ha bisogno di noi. Accade perché solo noi possiamo portare il mondo al linguaggio; solo noi possiamo portare il mondo a essere.

Il mondo ci riguarda. E quanto ci riguardi ne dà conto il corpo con i suoi “contorni”.

Attraverso il “peso” della carne, cui siamo per molti versi governati, il mondo diviene un cosmo precisato e nominabile. La natura che lo costituisce è la «custode insaziata di un’acqua che crea», così come il suo respiro è il respiro stesso della parola poetica: un respiro incessante, a volte affannoso, come se anche la minima interruzione potesse minacciarne l’esistenza. «E io per questo respiro».

Delfino non dimentica gli imperativi propri della natura e del suo incessante apparire. Non dimentica che proprio da questo l’inesauribile principio si determina la brama della persona amata, brama che caratterizza le manifestazioni più elementari dell’amore («e ti sento e ti seguo» e «l’averti si fa ricordo e respiro»). È vero: il principio è là dove il vincolo d’amore non è mai stabile e immutabile. Il vincolo amoroso si rinnova e si rinsalda unicamente grazie agli elementi albali del corpo: l’umbra interiore e i suoi contorni («Dormo lungo la mia notte / … / e respiro e sogno / lungo la mia notte»).

La visione degli enti corporei e delle forme che si avvicendano nella natura finisce per coincidere – come questo libro annuncia sin dal titolo – con l’esperienza della danza, vera e propria essenza del moto dei corpi.

L’esperienza ordinaria ci indica che il tempo consuma le cose, le logora. Solo nella danza si può fare esperienza di uno scorrere che non consuma, di una pura durata. Avviene nell’abbraccio, nella carezza: «Accarezzo i capelli, apro le braccia / ti stringo … / E lì c’è il regalo». La carezza trattiene. Stretti nell’abbraccio, gli amanti (la mamma e il figlio, l’uomo e la donna) sperimentano un restare senza tempo; un restare lì dove si trovano legati. Un andare senza cammino; ovvero un permanere, pur nel trascorrere del tempo, sempre quel che si è.

Grazie alla carezza, il corpo è l’io e l’altro dell’io, insieme; solidali tra loro e solidali con la natura; tanto che con l’accettazione del corpo si ha anche l’accettazione della natura nella sua purezza originaria.

In Danze si avverte l’abbandono del sentire “distinto” in contenuto e forma, così da determinare che la filosofia perda la parola e la ceda alla poesia. Una poesia che diventa aurorale apertura, disponibile ad accogliere la vita. Una poesia che si costituisce come un’indagine serrata sulle strutture d’essere dell’esistenza umana e implica un pronunciarsi circa l’“ardore”, l’amore, il «furibondo formicolare, fino alla pressione che farà sparire ogni idea di superficie», assentendo così alla possibilità concreta di incidere sul mondo, e «non per sé o per uno / ma per la Terra».

Per questa strada viene chi scrive. In questo movimento di accoglienza entra anche colui che danza e non distingue il mondo reale da quello ideale. In questa indistinzione entrambi – chi scrive e chi danza – fanno sì che il senso dell’esistenza e l’esperienza del bello si spingano fino alla dismisura del dono: «Adesso voglio giocare che tu eri malato / e io ti venivo a trovare con un regalo».

Delfino ci chiede di pensare la vita come unità; ci induce a pensare la vita senza fare penitenza; ci indica che il valore dell’esistenza sta lì, nella vita stessa… «e lì c’è il regalo».

Con la danza, l’essere umano si avvezza alla vita terrena, al suo essere terreno. La danza interviene e agisce sull’esistenza; è essa stessa vita; forse è la potenza che governa lo scorrere della vita.

Tra chi scrive e chi danza ha luogo un moto di avvicinamento interminabile. Costantemente chi scrive e chi danza convergono toccandosi e unendosi e nuovamente sciogliendosi. Niente a che vedere con le faticose strutture concettuali elaborate dalla nostra mente. La danza sempre si muove prendendosi cura di qualcosa, ovvero riferendosi sempre a oggetti, situazioni, dati presunti nel mondo, e tendendo a identificarsi con queste cose per restituirci la loro specificità. La danza non è mai un’“aggiunta” alla vita; non viene mai prima né va al di là di essa, ma si manifesta rigorosamente all’interno della vita stessa: «C’è ancora che fuori / è il gelare».

Delfino ha la rarissima capacità di dirigere lo sguardo verso la sfera dove il corpo (con la danza) e la parola (con la poesia) si uniscono, dando vita all’esistenza umana. Non in cielo, ma sulla terra. Non in un giardino edenico, ma nel cantiere dei corpi: «Più comune a me del corpo non conosco luogo». La poesia racconta – ogni volta in maniera diversa – la storia della vita come essa è: poetica espressione dell’insieme di un corpo con il suo alfabeto.

Lo può fare perché la poesia è il grembo dal quale la vita e il suo abitare emergono.

Ci troviamo di fronte alla volontà di svelare l’essere nelle sue molteplici epifanie, cogliendo nel corpo l’atto supremo e puro di questo svelamento. In tale “volontà” è racchiuso un insistente interrogare: come può rapportarsi la poesia con la riflessione sul rapporto tra esseri umani? come può incidere la poesia sulla relazione tra gli esseri umani e il mondo che li circonda?

La danza va considerata dal punto di vista del corpo, così come il corpo, il nostro corpo, rappresenta il terreno essenziale di ogni valutazione sulla vita. È ciò che spinge Delfino a registrare: «e pensiamo tanto a noi che ci tremano le mani». Per soggiungere: «Sono un salice che sfiora la terra». Ovvero: sono la voce di un’interiorità lacerata dal sentimento e, proprio per questo, aperta all’altro e al mondo, fino a tremare per l’emozione. Proprio per questo le nostre mani non si tendono verso il cielo, verso un assoluto, ma si piegano, come fa il salice, verso la frammentarietà della terra, cogliendone le facoltà creatrici.

Va prestata attenzione a questi frammenti, a questi «pulviscoli neri», a questo «vuoto incompiuto». L’insieme è distrazione dell’essere dal mondo.

Per farci presenti a noi stessi è necessario raccogliere i meccanismi inconosciuti dell’esistenza. Ecco perché non si tratta soltanto di imparare a «guardare / fuori di sé», gettando lo sguardo su questo nostro mondo con occhi diversi; si tratta più precisamente di guardarlo facendo i conti con le polarità del sé. La poesia accetta questo compito e amorosamente si versa in dono al mondo. Dona al mondo la propria esperienza. Facendo sì che l’uno non sia più una prigione, ma diventi ciò che deve essere: luogo di raccordo tra due regioni che hanno un destino reciproco: unire in stretto rapporto l’umana interiorità e le cose che stanno al di fuori del sé.

Delfino ci mostra come le cose possano diventare contenuto dell’esperienza interiore, chiarendo che ciò può accadere solo se vengono rese esse stesse “interiori”. Solo così potranno assurgere alla pienezza della propria essenza. Solo così, d’altro canto, la realtà intima potrà diventare un elemento della realtà esteriore.

Sarà proprio seguendo queste complesse «geometrie dell’io» che Delfino potrà scrivere: «Raccoglieremo insieme le sfere / quando il filo si spezzerà / diverremo abito e pensiero invisibile / nell’onda dove si fa coro».

Sarà seguendo tali “geometrie” che noi stessi potremo alfine sottrarci dalla dipendenza del logos per incamminarci verso un nuovo spazio d’intelligibilità, in «un’altra lingua», in un altro «respiro», in uno spazio letterario prodotto da un senso che – lasciando coesistere l’io e l’altro, interiorità ed esteriorità – assentirà unicamente alla legge dei sensi.

 

Flavio Ermini

 

 

Aurelia Delfino. Danze. Poesie 1993-2016

Mimesis, 2016, pp. 69, € 6,00

 

 

Aurelia Delfino (1972) collabora con la cattedra di Storia della Filosofia a Scienze della Formazione all'Università di Milano-Bicocca, di cui è titolare il professore Mario Cingoli. Si occupa di letteratura clandestina francese e di filosofia moderna in generale; ha studiato alla Scuola di Alti Studi di modena dove ha conseguito il dottorato di ricerca sotto la direzione di Paolo Cristofolini, Antony McKenna e Tullio Gregory. Per Mimesis ha pubblicato anche Il filosofo clandestino. Spinoza nei manoscritti proibiti del Settecento francese (2010).


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