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La marcia di Pasqua per l'amnistia 
Perché secondo Sofri è giusto partecipare alla marcia dei Radicali. Su Il Foglio di oggi
15 Aprile 2017
 

Abuso ancora di questo spazio per giustificare la mia assenza dalla marcia di Pasqua per l’amnistia, dovuta a impedimenti logistici che non so superare. Me ne rammarico per più ragioni. Una è il piacere di incontrare persone che, singolarmente e nella loro combinazione di guardie e ladri, è ormai raro vedere altrove. Soprattutto è la premura per la condizione delle galere e dei loro abitatori, cui mi lega un affetto da migrante. I radicali di ogni chiesa sono in solido garanti di una fraternità lucida e non sentimentale (anche sentimentale) verso i detenuti e chi vive vicino a loro. Penso che l’amnistia sia fuori dalle possibilità attuali e prevedibilmente future del nostro regime politico e dell’opinione che forma e da cui è formato. Ai discorsi dei Papi i pii parlamentari hanno imparato da tempo a venerare il ronzio e togliere il pungiglione. I fatti provano che un’amnistia sarebbe un passaggio necessario, prima che per il buon frutto della clemenza, per affrontare il retaggio dell’amministrazione della cosiddetta giustizia, un morto che afferra il vivo e lo trascina nei propri scantinati di faldoni. Se l’amnistia diventasse una bandiera simbolica a scapito di interventi parziali e puntuali, crolli da puntellare e strappi da rattoppare giorno per giorno – notte per notte, la notte è il tempo della galera – chiederei che venisse ammainata. Non mi pare che avvenga. Sono stato del tutto scettico nei confronti di una specie di partito dell’amnistia che avrebbe preso la parte per il tutto, col risultato di renderla ancora più parziale. Visitare i carcerati e augurare l’amnistia come un giubileo ottusamente mancato alla sua data e rinviato a data da destinarsi – domani, a Gerusalemme – è un buon pezzo di programma. Così sono interamente solidale con promotori e partecipanti della marcia di Pasqua.

 

Adriano Sofri

(da Il Foglio, 15 aprile 2017 - “piccola posta”)


Foto allegate

(foto Roberto Giachetti)
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