Il mio aperitivo, qui all’Ápeiron, con Jacques Derrida, e il nostro colloquio, è finito. Ripercorro mentalmente le tappe del mio conversare col filosofo franco-algerino.
DERRIDA: «La strategia decostruzionista consiste nell’inversione della metafisica della presenza».
GIANFRANCO: «Andiamo piano! Tu dici che la tradizione filosofica occidentale è stata fino adesso una tradizione logocentrica: che privilegia la presenza piuttosto che l’assenza, la parola piuttosto che la scrittura».
DERRIDA: «Sì. È qui che si innesta la mia strategia decostruzionista: invertire il processo per mezzo del quale è stato costruito un testo».
GIANFRANCO: «Già: perché per te esiste una differenza fondamentale tra un libro e un testo».
DERRIDA: «Tra la voce e la parola, tra la scrittura e la manifestazione vocale di un concetto, tra l’esporre le cose in maniera organica e coerente attraverso dei segni e il dire».
GIANFRANCO: «Torniamo un attimo indietro: cos’è una strategia decostruzionista?»
DERRIDA: «È la messa in opera della différance».
GIANFRANCO: «Insomma la tradizione filosofica occidentale ha sempre prediletto la presenza all’assenza. La presenza di una parola detta piuttosto che l’evidenza di un testo scritto: è questa la differenza fra testo e libro. Naturalmente tu affermi che si debba privilegiare il testo».
DERRIDA: «La messa in opera della différance è proprio questo: il negativo, l’assente, il non pensato può essere protagonista di una post-filosofia pienamente post-moderna».
GIANFRANCO: «Ma per far questo devi decostruire».
DERRIDA: «Nella tradizione filosofica occidentale tutto il male è attribuito alla scrittura».
GIANFRANCO: «Insomma bisogna chiudersi in un testo».
DERRIDA: «E da lì iniziare a decostruire: fare emergere quelle opposizioni che sono il sale della dialettica hegeliana e nelle quali consiste tutta la tradizione occidentale».
GIANFRANCO: «Fare emergere la differenza del testo scritto rispetto al detto parlato».