Tra i modi possibili con cui il carcere può essere raccontato al cinema, c'è certo anche quello scelto da Claudio Amendola per il film che ha diretto e interpretato, dal titolo: Il permesso – 48 ore fuori: e cioè prendere in esame alcuni detenuti quando escono dal carcere, per la breve licenza evocata dal titolo. Considerando le loro vicende e le loro figure, viene da chiedersi se e come il carcere li abbia trasformati, se abbia esercitato su di loro quella funzione rieducativa che il carcere dovrebbe avere.
Ebbene: la risposta che si desume dal film è in sostanza sconsolata. Che un giovane, che pure in carcere ha proseguito gli studi, si riunisca con i suoi vecchi amici, e si lasci coinvolgere in una nuova rapina; che un uomo, alla ricerca della donna che ama e che si prostituisce, si lasci usare dal suo sfruttatore per carpirne la benevolenza salvo poi scontrarsi con lui fino all'ultimo sangue; che una ragazza di buona famiglia, psichicamente disturbata, progetti di fuggire all'estero pur di non rientrare in galera; che un padre di famiglia, un ex-spacciatore, cerchi di tirare fuori dal giro dello spaccio, suo figlio, e a questo scopo tenti di scendere a patti con un boss locale che il ragazzo ha incautamente sfidato; insomma: anche a buon fine, per amore, per affetto paterno, per amicizia, tutti i personaggi agiscono secondo la logica criminale che li ha condotti in carcere, e dalla quale evidentemente il carcere non li ha distolti.
Faranno eccezione, ma soltanto in extremis, due di loro, i più giovani, per un loro slancio di ottimismo, che li fa rientrare, ormai quasi insperatamente, nella legalità.
Il permesso è costruito, insomma, come un film a tesi, e rischia, come accade ai racconti in cui un intento dimostrativo prevale sul piacere disinteressato della narrazione, una certa semplificazione dei fatti e dei personaggi, una certa schematicità. Capiamo sempre, o quasi sempre, al primo colpo d'occhio di che pasta sono fatti quei personaggi, se sono buoni o cattivi, saggi o scellerati. Sappiamo subito con certezza quando agiscono giustamente e quando sbagliano. E se pure non lo comprendessimo, è il racconto che ci dimostra presto le conseguenze disastrose delle loro scelte sbagliate.
Insomma: le ambiguità, le contraddizioni, in fondo: il mistero della vita, sono qui risucchiati dal moralismo che presiede a tutto il racconto (basato su un soggetto di Giancarlo De Cataldo).
In questi limiti, va detto tuttavia che Amendola dimostra un notevole occhio da regista. Gli incontri, i dialoghi tra i più giovani criminali, ricordano, a momenti, per freschezza, per autenticità, l'alto cinema di Pasolini, quello che raccontava i sottoproletari delle borgate romane.
E l'innamorato alla ricerca della prostituta è (interpretato da un Luca Argentero quasi irriconoscibile) è una figura che impressiona: malgrado il suo abbrutimento, ha l'aura di un eroe romantico, che sembra votato all'autodistruzione (perché, come si dice, “ha la morte negli occhi”).
Ma anche gli altri personaggi, seppure un po' elementari, a una dimensione, sono disegnati tutti con grande precisione, anche grazie alla bravura degli attori che li interpretano.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 8 aprile 2017
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